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La notte dell'anima fra paura e creatività - I parte

 

La notte dell'anima fra paura e creatività - I parte

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Quando la musica incontra la notte, è lì che la creatività può esplicarsi al massimo. Eppure è paradossale: in fondo il suono è strettamente connesso con la luce, pertanto ci si aspetterebbe che il binomio suono-luce sia più funzionale. Entrambi sono onde, le vibrazioni – i suoni armonici – sono scindibili e paragonabili ai “colori di un prisma”, come si dice nella Storia della Musica di A. Della Corte. E invece no. Le composizioni musicali che più attraggono l’orecchio umano o sono composte di notte, o vengono in sogno al compositore, o hanno almeno una citazione nel titolo o nel testo afferente alla sfera notturna (o, ad esempio, è di notte che i giovani affollano concerti o, nel peggiore dei casi, discoteche) . La musica di per sé ha il grande potere di “isolare” l’udito dagli altri sensi: se poi la luce è completamente assente, le onde sonore miste al buio conferiscono, per dirla col linguaggio dei Romantici, un’atmosfera di Sehnsucht, nonché quel senso del mistero che sempre attraggono l’animo umano.
Insomma la notte è il regno dei musicisti: basti pensare ai jazzisti e alle loro jam-session che si protraggono fino a tarda notte. Jazz che in fondo è la teorizzazione massima del connubio notte-creatività, semplicemente perché ha un alto concetto delle ore notturne e perché potrebbe definirsi la musica “da notte” per eccellenza. Un sassofono che suona alla luna, l’improvvisazione, l’efficacissimo linguaggio del jazz, forsennata e, a detta di alcuni, animalesca: il jazz attende chi è ben disposto a farsi travolgere dal suo fascino alla soglia della notte. Notte che spesso è l’unico momento della giornata in cui ci si può dedicare alla musica, causa impegni lavorativi (come non citare il grande chitarrista Wes Montgomery, che ha sviluppato il suo stile morbido e inconfondibile proprio per evitare di disturbare i suoi vicini quando suonava di notte, di ritorno dal lavoro?), è di notte che la malinconia (in americano “blues”, non a caso un colore notturno) prende il sopravvento. E ci si ferma a riflettere.

Per altri, come Thelonius Monk , grande pianista jazz, “è sempre notte altrimenti non avremmo bisogno della luce”: posizione in apparenza pessimistica, ma che dal punto di vista filosofico considera la notte come il “substratum x” su cui c’è il bisogno fisiologico che la luce agisca, luce come conoscenza empirica, luce come condicio sine qua non dell’esistenza. Lo stesso Monk è autore della famosissima “Round Midnight”, uno degli standard più complessi ed eseguiti in assoluto, di chiara reminiscenza classica, salvo poi lanciarsi nell’improvvisazione. Il grande Miles Davis (che pure non era uno sprovveduto) incontrò difficoltà nell’esecuzione del brano, tanto da scontentarne l’autore, riuscendo , infine, brillantemente dopo diversi tentativi. Il tema ha un che di inquietante, ma ha la solennità di una rivelazione: “ma è verso mezzanotte che sto davvero male”. La paura di rimanere soli, l’infantile timore del buio, la musica come ancora di salvezza.
Ma andiamo un po’ indietro nel tempo.
Quando la musica notturna ha assunto la sua nuance elegiaca? Certamente in piena età illuministica anche il minimo residuo di tenebre fu epurato dalla musica. La Serenata Notturna di Mozart ha toni tutt’altro che intimistici e nostalgici, è anzi trionfale e solenne ed evoca scenari luminosi e assolati. Tale composizione doveva perciò intendersi notturna solo perchè eseguita di notte, in quanto serenata. Nel Romanticismo ovviamente si assiste ad un’inversione di tendenza: ne sono un esempio i Notturni di Chopin. Altrove, in Russia, torna un tòpos della filosofia: il conflitto tra bene e male, affrontato in maniera monumentale da Modest Mussorsgkij nella sua “Una notte sul monte Calvo” (1867), riarrangiata poi nel 1939 da Leopold Stokowskij per il film d’animazione “Fantasia” di Walt Disney.
Il monte Calvo è il monte Triglav, presso Kiev, su cui ogni anno si svolge nella notte di S. Giovanni (24 giugno) un raduno di streghe e demoni (un po’ come nell’Halloween anglosassone) a cui il giovane protagonista, Gritzko, assiste in sogno dopo essersi ubriacato.

Diavoli, spiriti maligni e streghe incontrano Satana, chiamato qui Cernobog : l’intera composizione è pervasa da un’atmosfera demoniaca, in contrapposizione con la parte finale, in cui sorge l’alba , decisamente più calma. Oltre al recupero delle tradizioni popolari, pallino fisso dei Romantici, su cui non è questa la sede per soffermarsi, ciò che conta è che Mussorsgkij ci ha portato a un pensiero cardine della filosofia: il dualismo fra luce/ bene, notte/ male o luce/conoscenza, notte/ignoranza, su cui molti filosofi hanno discusso, facendo indossare alla notte un “abito da lutto”, per dirla con Hume, anche se questi usò tale espressione in riferimento alla morale. Ma andiamo con ordine.
Fermo restando che la notte non è assolutamente male, ignoranza o momento in cui gli istinti prendono il sopravvento sulla parte razionale dell’uomo, ma è l’habitat naturale della creatività, come dimostrano gli esempi addotti in precedenza, bisogna capire perché nel corso degli anni si è teso a demonizzare le ore notturne, quasi fossero foriere di calamità. La cultura greca, come sempre, docet: è rilevante come il verbo òida, “io so” abbia la radice indoeuropea *weid/ wid-/ woid il cui significato originario è “vedere”. Alla base di questa relazione c’è l’idea che una persona conosce qualcosa in quanto ne è stata testimone oculare (so, in quanto ho visto). Della stessa radice etimologica è il termine istorìa,derivato da ìstor, nomen agentis di òida, che vuol dire “esperto”: si veda Erodoto, che assicura di essere stato testimone oculare di molte delle vicende narrate nelle sue Istoriai.
Dunque il concetto di conoscenza era imprescindibile da una sorta di illuminazione, intesa tanto come lampo di genio (la nostra “lampadina”), quanto come rivelazione di una divinità (ancora il verbo fàino, “mostro, rivelo, metto in luce”, ha la stessa radice di fòs, “luce”: insomma il greco è inequivocabile pur nell’ampiezza del suo spettro semantico).

Rimanere nel buio dell’ignoranza era proprio di chi non sapeva avvicinarsi a quella fonte luminosa inesauribile quale è la sapienza: lo dice anche Platone nel suo mito della Caverna, dove ipotizza che un prigioniero in una caverna venga liberato ed esca fuori; rimasto in un primo momento abbagliato dalla luce, cerca di vedere le immagini riflesse nell’acqua (=le idee matematiche). Poi, quando comincia ad abituarsi alla luce, rimane stupito dalla bellezza del mondo reale, di cui nella caverna non conosceva che un riflesso, e torna a raccontare ai suoi amici quanto ha visto. Ma questi lo credono pazzo e lo deridono al suo tentativo di liberarli e condurli fuori (chiaro riferimento a Socrate). Questa è la condizione del filosofo, che riesce ad elevarsi dalle ombre della realtà, senza che i suoi meriti vengano adeguatamente riconosciuti. Nulla di nuovo sotto il sole. E’ evidente la condizione di inferiorità della realtà rispetto alle idee: non a torto lo studioso E. Dodds definì quella greca “la civiltà della vergogna”. La parte istintiva dell’uomo e tutte le passioni sono deprecabili, perché lasciano nelle tenebre. Secondo Platone per vedere la luce ci si può affidare allo studio delle scienze esatte (ovvero matematica, geometria e, guarda caso, musica) e all’amore, quello vero però, non quello volgare. In fondo le cose non è che siano molto cambiate: ancora oggi è d’uso comune l’espressione “Sei il mio sole!” nei confronti della persona amata.
Insomma, luce come garante di verità.
E’ decisamente notevole la predominanza che i Greci davano alla vista rispetto agli altri sensi. Non a caso il grande Stagirita, per descrivere le nostre capacità intellettive si serve di un paragone, per così dire, “visivo”.

L’intelletto di ognuno di noi è un intelletto potenziale, ossia ha solo potenzialmente la capacità di conoscere, la quale può essere resa effettiva dal Noùs Poietikòs, l’intelletto in atto. Quello in atto è paragonabile alla luce che rende visibile i colori, quello in potenza è assenza di luce, in cui non è possibile distinguerli. Del resto potremmo muovere una critica a questo concetto: certo, va bene, se non c’è luce non vedo niente. Ma posso toccare, annusare, udire, assaggiare. E il mio processo conoscitivo procede comunque. In altre forme e in altri modi, questo sì. Ma non si può dire che senza vista io non possa conoscere. In questo senso si può definire più calzante l’esempio del blocco di marmo fatto da Leibniz (ma non dimentichiamo che è di 2000 anni posteriore ad Aristotele): la conoscenza è come un blocco di marmo con delle venature, una sorta di “input conoscitivi potenziali”, scolpendo lungo le quali con lo scalpello della ragione, si può creare una statua- conoscenza.
Insomma, abbagliata dalla luce del giorno, la notte ha raramente goduto di buona reputazione, soprattutto se diabolicamente associata al male. E’ questa la soluzione che sembrò soddisfare S. Agostino quando aderì alla dottrina manichea (secondo cui la realtà fosse il risultato del continuo scontro far Bene e Male, rappresentati metaforicamente da Luce e Tenebre): ma subito si rese conto di come elevare il male a entità metafisica fosse controproducente, e così intuì che il male dovesse essere ignoranza del bene. Bingo: si va così consolidando l’idea di notte come ignoranza , come limite invalicabile, regno proibito e misterioso. Il Sommo Poeta nel Purgatorio dice che, per ordine divino, è vietato proseguire il cammino di espiazione durante la notte: bisogna quindi fermarsi e pregare, perché l’assenza di Dio (=Luce; evidentemente Dante è attratto dalla speculazione filosofica circa la metafisica della luce, di derivazione araba ma di stampo tomistico) fa sì che il Purgatorio sia infestato dal serpente che diede ad Eva il frutto del peccato. A spaventare sono la paura che qualcosa sfugga al controllo razionale, l’incontrollabilità del buio, il fatto che la notte rivesta di nero la realtà fenomenica. O spaventano o attraggono.

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