Musica
Nelle sere d'estate la solitudine non si faceva indossare, anche se pungeva come una zanzara del mal d'aria.
La vertigine della partenza aveva portato via la mia generazione. Io intuivo che la valigia non l'avrei mai fatta. Sentivo l'abbandono scorrermi dentro. Sentivo che la mia terra era una malattia e che la sua storia sarebbe stata la mia.
Tra le pagine chiare rimanevano scuri i nomi cancellati. Un silenzioso campo di stoppie che cresceva nel sole.
Quel tempo immobile bisognava bruciarlo con la fantasia, l'arte della luna per ri-creare la vita.
Addosso agli scalini del corso, in tre o in quattro infilavamo nelle sere, una dopo l'altra, le nostre incazzature e le nostre promesse per il mondo. Sulle scale per il cielo i sogni e gli impegni. Nell'avanguardia dei nostri pensieri giungevano in ritardo gli echi di proteste e di poesie che la musica portava vicino in un viaggio lontano. Qualche amico, qualche compagno. La rabbia e la speranza in forma di chitarra. Una dolce ossessione. Pane e poesia, musica e lotta: le nostre barricate contro lo schifo e la malinconia. Anni settanta. L'immaginazione al potere.
Da Lucia, che tornava da Roma ogni estate con l'aria forse troppo allegra per essere vera e che cantava di "un vento che avrebbe spazzato via la vecchia e piccola borghesia", conobbi un ragazzo dagli occhi dolci, i capelli lunghi, una faccia pulita e sognante che sapeva di mandorlo, "la faccia di uno che ha capito e ha anche un principio di tristezza in fondo all'anima". Il Sud bussava con due tocchi nel suo nome: Rocco, infatuato dalla poesia e dalla musica di Francesco De Gregori.
Passò con disinvoltura tra testi e accordi, rivelando una sensibilità non comune in quest'angolo di terra.
Fui felice di sapere che viveva nel mio stesso paese e che aveva un gruppo di amici con cui stava dando forma ad una esistenza più consapevole, solidaristica, partecipativa dei destini degli ultimi. Avevano addirittura un'associazione, la Gi.O.C. il cui acronimo (Gioventù Operaia Cristiana) m'intrigò abbastanza, nella suggestione del gioco che sembrava evocare.
Chiamavano la loro sede "lo Stanzino" da dove passava un'umanità senza privilegi, semplice, che voleva prendersi in mano il proprio destino, che s'interrogava sul senso delle cose. Un'umanità che obiettava al mondo le sue ingiustizie e rifiutava l'idea che armi e divise potessero blindare la propria coscienza. Anche qui l'ubbidienza cominciava a non essere più una virtù.
In quello stanzino arrivarono ragazzi da diversi posti, portarono le loro storie che resero appassionata quell'esperienza. Un prete scomodo, un don Milani contadino, fiero e vigoroso, li aiutava a crescere senza ipocrisie, insegnando il coraggio della furia nel tempio e il potere di agire come persone intere, senza distinzione tra esterno e interno, pubblico e privato e pertanto persone vere.
"Ogni amico - scriveva Anaïs Nin - rappresenta un mondo in noi, un mondo che non è ancora apparso finché egli non arriva, ed è solo da questo incontro che nasce un nuovo mondo".
Fu un piccolo prodigio (e lo è ancora di più pensandoci oggi in quest'epoca di basso impero) l'esistenza di questo gruppo. Mi riscaldava l'anima sapere che loro c'erano. Tommaso, Donato, Rocco, Cosimo, Vito, Rino, Giovanni... Non riuscii a dare loro il sostegno di cui tutti abbiamo bisogno. Non riuscii a dire allora quanto quel prete "rosso", come amavano definirlo i suoi nemici per screditarlo, stava insegnando a distanza ad una come me che aveva avuto la presunzione di crescere fuori dai riti e dalle appartenenze bigotte. Non era ancora molto chiaro, ma in un modo qualsiasi parallelamente stavamo mettendo tutte le nostre forze e capacità inventiva per costruire quel "luogo che non c'era".
Come spesso mi accade, anche allora arrivai troppo tardi a capire. L'idea che c'è sempre tempo per farlo, per coinvolgersi, per darsi agli altri, dissipa l'unico tempo utile e necessario, quello del momento. Rimasi sulla soglia di quel mondo, ma lui mi entrò dentro e mi divenne affine.
In una di quelle sere d'estate, dolce e calda, mentre gli altri continuavano a girare a vuoto nelle auto, cercando le vie del mare, non so come ci ritrovammo in piazza, in un appuntamento mai preso. Sugli scalini della scuola arrivammo un po' per volta, superammo timidezze e convenevoli e lasciammo che la corrente speciale di chi si riconosce scorresse tra noi. L'alchimia che trasforma l'io in noi. Quel luogo diventò d'allora un pezzo di vita, un posto, un rito con il quale ci raccontavamo insieme ai testi sacri e profani di Lolli e De Andrè, Guccini e De Gregori, Dylan e Joan Baez, ai canti d'amore e di fatica della terra del rimorso. Una categoria dello spirito che avrei cercato ancora in un altrove negato o rivelato. Gli innamorati, gli alternativi, lo studente, l'operaio, il disoccupato, il matto, lo scemo, il professore, il contadino, chi era tornato e chi stava per partire, Rocco e Vito con le loro chitarre e le ragazze con le loro voci belle.
Si toccavano subito le corde giuste e la chitarra diventava un'espansione dell'anima. Restavamo fino all'alba, o meglio avremmo voluto resistere fino alla prima luce. In realtà andavamo a letto molto prima. L'inquietudine si disperdeva, provavamo il sottile piacere di una intimità tra di noi, con le stelle, con le panchine vuote, con i lampioni che si spegnevano, con i lecci stanchi delle chiacchiere del giorno, con i cani... "quattro cani per strada e la strada è già piazza e la sera è già notte / se ci fosse la luna si potrebbe cantare...".
E poi la dissolvenza, come in tutte le cose. Aspettando ancora Godot, il veleno dell'entropia nelle relazioni. Le emozioni però si arrotolano dentro come un serpente addormentato e possono bucare in qualsiasi momento la roccia, l'indifferenza, il "chi me lo fa fare".
Nel corteo del 23 marzo, tra i tre milioni a Circo Massimo ci siamo ritrovati con Maria e Vito. Ho saputo dopo che c'erano Rosa, Gilberto, Lucia... e chissà quanti altri nella girandola del tempo.
Qualche chilo in più e qualche capello in meno, tutto continua anzi ricomincia. Adelante. Contessa e Cavaliere non bastano alla storia. La storia siamo noi. Unico obbligo ricordarselo.
Memoria, Mnemosine per i Greci, ebbe da Zeus nove figlie, le Muse, che cantando con la loro sublime voce ispiravano artisti e poeti. Memoria racchiude in sé il tempo nel suo scorrere, ma anche il tempo senza tempo, dove ogni storia come ogni verso, ogni musica, ogni vita, ogni danza accade in quanto è già accaduta e perché di nuovo potrà accadere.
Rosaria Gasparro
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