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di Rosaria Gasparro
Nelle sere d'estate la solitudine non si
faceva indossare, anche se pungeva come una zanzara del mal d'aria.
La vertigine della partenza aveva portato via la mia generazione. Io
intuivo che la valigia non l'avrei mai fatta. Sentivo l'abbandono
scorrermi dentro. Sentivo che la mia terra era una malattia e che la sua
storia sarebbe stata la mia.
Tra le pagine chiare rimanevano scuri i nomi cancellati. Un silenzioso
campo di stoppie che cresceva nel sole.
Quel tempo immobile bisognava bruciarlo con la fantasia, l'arte della luna
per ri-creare la vita.
Addosso agli scalini del corso, in tre o in quattro infilavamo nelle sere,
una dopo l'altra, le nostre incazzature e le nostre promesse per il mondo.
Sulle scale per il cielo i sogni e gli impegni. Nell'avanguardia dei
nostri pensieri giungevano in ritardo gli echi di proteste e di poesie che
la musica portava vicino in un viaggio lontano. Qualche amico, qualche
compagno. La rabbia e la speranza in forma di chitarra. Una dolce
ossessione. Pane e poesia, musica e lotta: le nostre barricate contro lo
schifo e la malinconia. Anni settanta. L'immaginazione al potere.
Da Lucia, che tornava da Roma ogni estate con l'aria forse troppo allegra
per essere vera e che cantava di "un vento che avrebbe spazzato
via la vecchia e piccola borghesia", conobbi un ragazzo dagli
occhi dolci, i capelli lunghi, una faccia pulita e sognante che sapeva di
mandorlo, "la faccia di uno che ha capito e ha anche un principio
di tristezza in fondo all'anima". Il Sud bussava con due tocchi
nel suo nome: Rocco, infatuato dalla poesia e dalla musica di
Francesco De Gregori.
Passò con disinvoltura tra testi e accordi, rivelando una sensibilità
non comune in quest'angolo di terra.
Fui felice di sapere che viveva nel mio stesso paese e che aveva un gruppo
di amici con cui stava dando forma ad una esistenza più consapevole,
solidaristica, partecipativa dei destini degli ultimi. Avevano addirittura
un'associazione, la Gi.O.C. il cui acronimo (Gioventù Operaia Cristiana)
m'intrigò abbastanza, nella suggestione del gioco che sembrava evocare.
Chiamavano la loro sede "lo Stanzino" da dove passava
un'umanità senza privilegi, semplice, che voleva prendersi in mano il
proprio destino, che s'interrogava sul senso delle cose. Un'umanità che
obiettava al mondo le sue ingiustizie e rifiutava l'idea che armi e divise
potessero blindare la propria coscienza. Anche qui l'ubbidienza cominciava
a non essere più una virtù.
In quello stanzino arrivarono ragazzi da diversi posti, portarono le loro
storie che resero appassionata quell'esperienza. Un prete scomodo, un don
Milani contadino, fiero e vigoroso, li aiutava a crescere senza ipocrisie,
insegnando il coraggio della furia nel tempio e il potere di agire come
persone intere, senza distinzione tra esterno e interno, pubblico e
privato e pertanto persone vere.
"Ogni amico - scriveva Anaïs Nin - rappresenta un mondo in
noi, un mondo che non è ancora apparso finché egli non arriva, ed è
solo da questo incontro che nasce un nuovo mondo".
Fu un piccolo prodigio (e lo è ancora di più pensandoci oggi in
quest'epoca di basso impero) l'esistenza di questo gruppo. Mi riscaldava
l'anima sapere che loro c'erano. Tommaso, Donato, Rocco, Cosimo, Vito, Rino, Giovanni...
Non riuscii a dare loro il sostegno di cui tutti abbiamo bisogno. Non
riuscii a dire allora quanto quel prete "rosso", come
amavano definirlo i suoi nemici per screditarlo, stava insegnando a
distanza ad una come me che aveva avuto la presunzione di crescere fuori
dai riti e dalle appartenenze bigotte. Non era ancora molto chiaro, ma in
un modo qualsiasi parallelamente stavamo mettendo tutte le nostre forze e
capacità inventiva per costruire quel "luogo che non c'era".
Come spesso mi accade, anche allora arrivai troppo tardi a capire. L'idea
che c'è sempre tempo per farlo, per coinvolgersi, per darsi agli altri,
dissipa l'unico tempo utile e necessario, quello del momento. Rimasi sulla
soglia di quel mondo, ma lui mi entrò dentro e mi divenne affine.
In una di quelle sere d'estate, dolce e calda, mentre gli altri
continuavano a girare a vuoto nelle auto, cercando le vie del mare, non so
come ci ritrovammo in piazza, in un appuntamento mai preso. Sugli scalini
della scuola arrivammo un po' per volta, superammo timidezze e convenevoli
e lasciammo che la corrente speciale di chi si riconosce scorresse
tra noi. L'alchimia che trasforma l'io in noi. Quel luogo diventò
d'allora un pezzo di vita, un posto, un rito con il quale ci raccontavamo
insieme ai testi sacri e profani di Lolli e De Andrè, Guccini e De
Gregori, Dylan e Joan Baez, ai canti d'amore e di fatica della terra del
rimorso. Una categoria dello spirito che avrei cercato ancora in un
altrove negato o rivelato. Gli innamorati, gli alternativi, lo
studente, l'operaio, il disoccupato, il matto, lo scemo, il professore, il
contadino, chi era tornato e chi stava per partire, Rocco e Vito con le
loro chitarre e le ragazze con le loro voci belle.
Si toccavano subito le corde giuste e la chitarra diventava un'espansione
dell'anima. Restavamo fino all'alba, o meglio avremmo voluto resistere
fino alla prima luce. In realtà andavamo a letto molto prima.
L'inquietudine si disperdeva, provavamo il sottile piacere di una
intimità tra di noi, con le stelle, con le panchine vuote, con i lampioni
che si spegnevano, con i lecci stanchi delle chiacchiere del giorno, con i
cani... "quattro cani per strada e la strada è già piazza e la
sera è già notte / se ci fosse la luna si potrebbe cantare...".
E poi la dissolvenza, come in tutte le cose. Aspettando ancora Godot, il
veleno dell'entropia nelle relazioni. Le emozioni però si arrotolano
dentro come un serpente addormentato e possono bucare in qualsiasi momento
la roccia, l'indifferenza, il "chi me lo fa fare".
Nel corteo del 23 marzo, tra i tre milioni a Circo Massimo ci siamo
ritrovati con Maria e Vito. Ho saputo dopo che c'erano Rosa, Gilberto,
Lucia... e chissà quanti altri nella girandola del tempo.
Qualche chilo in più e qualche capello in meno, tutto continua anzi
ricomincia. Adelante. Contessa e Cavaliere non bastano alla storia. La
storia siamo noi. Unico obbligo ricordarselo.
Memoria, Mnemosine per i Greci, ebbe da Zeus nove figlie, le Muse, che
cantando con la loro sublime voce ispiravano artisti e poeti. Memoria
racchiude in sé il tempo nel suo scorrere, ma anche il tempo senza tempo,
dove ogni storia come ogni verso, ogni musica, ogni vita, ogni danza
accade in quanto è già accaduta e perché di nuovo potrà accadere.
Rosaria Gasparro |
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