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I bar non sono più quelli di una volta. Oggi sono più scic e frequentati da tutti, compreso le famiglie con prole al seguito. Tuttavia ancora esiste qualche bar a San Michele per il quale il tempo si è fermato a tanti anni fa e te ne accorgi dalle persone che lo frequentano e che spesso sostano dinanzi all’entrata: gli avventori appartengono a quella categoria sociale che comunemente chiamiamo degli scansafatiche e/o feccia della società dove il gioco delle carte e l’alcol scandiscono l’esistenza stessa.
Chi è che non conosceva Tommaso! Lo conoscevo già da piccolo anch’io: nato in una delle più umili e semplici famiglie di San Michele Salentino nello stesso anno in cui sono nato, il 1961, abbiamo condiviso un pezzo dell’infanzia nella stessa strada, Via Umberto I, ma non ho ricordi chiari… sapevo che si era ustionato gravemente parte del corpo facendosi rovesciare addosso una pentola di acqua bollente i cui segni non sparirono mai, e che negli anni a venire era caduto da una “giostra volante” e miracolosamente scampato alla morte visto l’altezza della caduta. Sapevo che già dall’ora viveva l’emarginazione dovuta al suo handicap e senz’altro anche dovuta alle origini del suo “ceto sociale”.
Ma molti anni a seguire l’avrei conosciuto con occhi diversi.
Era la fine degli anni ’70. Don Angelo Colucci mi aveva dato il compito di curare i registri parrocchiali ed aprire e chiudere la chiesa. A fine mese mi dava un piccolo contributo in denaro, prezioso in quegli anni, che mi permetteva di fare fronte alle mie esigenze personali, in primis le sigarette. La mattina alle ore 9,00 mi recavo in parrocchia, aprivo, e prendevo posto alla scrivania in sacrestia per adempiere al compito di “segreterio”, per gli amici, invece, al compito di “sacrestano”. Alle 12,00 chiudevo la chiesa e tornavo a casa.
Nel tragitto che facevo ogni giorno incontravo spesso Tommaso: lo vedevo sovente davanti al bar, altre volte per strada. La cosa che mi colpì subito fu il suo pallore… bianco…
Tommaso aveva una forte scogliosi che aveva ridotto e debilitato l’uso degli arti. Nella fase di crescita stava mettendo in pericolo le funzioni del cuore e quindi della sua stessa vita. Si rendeva necessario un intervento chirurgico di raddrizzamento della spina dorsale che fu effettuato a Napoli. Tra interventi pre-operatori, operatori e convalescenza, Tommaso avrebbe “bruciato” più di un anno della sua gioventù tra l’ospedale di Napoli e le quattro mura di casa sua. Ora lo vedevo anemico, bianco… ragazzo di bar… bar di una volta…
Oltre al pallore mi colpì la solitudine con cui viveva il suo dramma al quale si aggiungeva la mancanza di lavoro, la mancanza di relazioni umane e di affettività.
Ne parlai con Don Angelo di questo “incontro” ed insieme si decise di invitare Tommaso a frequentare la parrocchia. L’unica realtà di gruppo giovani esistente si occupava di animazione del tempo libero. Era un gruppo numeroso e dispersivo dove emergeva chi sapeva parlare meglio e chi aveva un temperamento estroverso… non c’era spazio per quelli come Tommaso e la situazione di emarginazione fu “ri-marcata” anche in parrocchia.
Però Tommaso mi veniva sempre a trovare, in sacrestia, e parlavamo… eravamo diventati amici: tra “simili” ci si capisce...
Una delle cose più belle che ricordo di quei momenti era il “rito della prima sigaretta mattutina”. La prima sigaretta della giornata era la più gustosa: alcune volte prima di aprire la chiesa passavo da casa sua (lui era quasi sempre a letto), lo svegliavo, si preparava, faceva il caffè e poi la sigaretta… altre volte veniva in chiesa e subito nel salone Santa Caterina a fumare (Don Angelo ce lo permetteva).
Piano piano la parrocchia prendeva il posto del bar e Tommaso cominciava ad aprirsi ed a comunicare, cosa, per lui, molto difficile.
Come è già stato scritto nelle pagine di questo sito, in riferimento a ciò che è avvenuto in ambito parrocchiale negli anni ’70-’80, Don Angelo era molto sensibile alle problematiche giovanili e del disagio: la sua preoccupazione maggiore era di creare esperienze di gruppo capaci di dare risposte alle problematiche di noi, allora, giovani e, nello stesso tempo, formarci come persone per poi essere in grado di vivere consapevolmente la nostra vita in modo attivo e positivo. Purtroppo i gruppi nati fino a quel momento non permettevano questa particolare attenzione alla “persona” per tanti motivi: gruppi eterogenei, numero eccessivo dei partecipanti, mancanza di un metodo, ecc… Chi “risolse” i suoi ed i nostri problemi fu Bruno Longo (militante della Gioc, scomparso prematuramente) che ci propose di provare l’esperienza della GIOC dove i gruppi erano piccoli (7-8 persone), omogenei (tutti della stessa età o tutti disoccupati ecc…) e si usava un metodo molto efficace che consisteva nel parlare non di cose astratte ma della propria vita, i propri problemi, per poi analizzarli, confrontarli con il Vangelo ed arrivare ad una azione concreta, piccola, che dava un segno tangibile di “cambiamento”.
Anche qui l’impatto iniziale per Tommaso fu un po’ problematico in quanto tutti potevano e dovevano parlare, esprimersi, c’erano tutte le condizioni per farlo. L’inizio fu duro: non immaginate cosa significasse per uno che non ha mai parlato della propria vita, dei propri drammi e che oltre alla emotività ed alla vergogna aveva anche difficoltà linguistiche. Ma l’attenzione al singolo, la ristrettezza, il metodo, riuscirono a far esprimere Tommaso, me e tutti quanti. Tutti fummo coinvolti in prima persona e per noi fu la “rinascita”.
Questo tipo di esperienza faceva sì che l’atteggiamento nei confronti dei nostri problemi non fosse più quello della rassegnazione, anzi… i problemi si affrontavano, il Vangelo veniva contestualizzato nella nostra vita dandoci speranza, forza, risposte e le piccole azioni concretizzavano la convinzione che era possibile cambiare la nostra vita e creare una società nuova, un mondo nuovo e vivibile per noi.
In particolare io e Tommaso frequentammo corsi di formazione ad Ostuni e Brindisi per 3 anni (se non ricordo male), realizzammo un piccolo laboratorio di riparazione elettrodomestici nel famoso “stanzino”, cominciammo ad informarci sulle leggi che tutelavano i portatori di handicap, in particolare le leggi sul lavoro (in questo ci aiutò molto Bruno Longo), ci associammo ad un sindacato di categoria e partecipammo alle varie manifestazioni ed esperienze varie (anche lavorative) e contestualmente il gruppo della Gioc rimaneva il punto di riferimento, di crescita, di confronto.
Il Tommaso nascosto dietro la propria condizione di emarginato, finalmente veniva fuori ed io insieme a lui. Era un Tommaso molto diverso: ironico, acuto nelle riflessioni, molto socievole e di compagnia (…le comunelle con carne arrosto – di “Rocc malacarn” – e birra erano il suo forte…), molto sensibile: a volte era l’unico nel gruppo ad accorgersi della sofferenza di un componente ed a manifestare gesti di attenzione oppure a pretendere che si facesse qualcosa nei confronti di situazioni di malessere e disagio. Anche il rapporto con il proprio handicap cominciava ad essere diverso: non più qualcosa di cui vergognarsi (anche se per un disabile i problemi reali restano sempre) ma tirava fuori la forza di lottare contro pregiudizi ed ingiustizie. Fummo capaci di mobilitare tutti i partecipanti all’ultimo corso di formazione per disabili, a cui partecipammo, per far valere i nostri diritti quando ci accorgemmo che volevano tagliare la retta di frequenza dovuta per legge. Organizzammo varie manifestazione muovendoci in corteo dalla sede della scuola di Piazza Vittoria a Brindisi fino alla sede dell’Amministrazione Provinciale, ente preposto alla gestione del corso ed alla liquidazione delle rette. 20-30 disabili in corteo con in testa Tommaso ed io… che momenti… la gente che si fermava a guardarci… noi con il nostro “andamento”, i nostri visi di persone fiere, la rabbia e nello stesso momento l’euforia delle risate sorte nel vedere la gente “normale” attonita fermarsi a guardare un corteo che “normale non era”. “Ce ‘rdor di past e fasul…” …ancora risate a crepapelle: Tommaso, la sua ironia, aveva sentito profumo di pasta e fagioli e lo aveva evidenziato forte, gridando nel corteo, e noi giù dalle risate.
Avevamo iniziato un cammino di liberazione dal nostro status di emarginati, esclusi, poveri, status accentuato dalla cultura del “tira a campare” e del “lascia che gli altri facciano”: noi la chiamavamo, in quegli anni, cultura del “fatalismo”. Sono stati gli anni più belli della mia vita sia per le esperienze fatte, sia perché abbiamo sperimentato “con mano” che era (ed è) possibile cambiare questo mondo e creare condizioni di vita “umane”. Un paradosso? Si, non è stata la politica ma un piccolo prete di provincia a creare le condizioni affinché questo accadesse. Un prete, una comunità, che metteva al primo posto il Vangelo, gli ultimi, gli emarginati; una fede non solo fatta di spiritualità ma specialmente di “vissuto” ed incarnata nella vita.
Poi arrivò il momento del nostro distacco, credo sia avvenuto nel 1983/84 se non ricordo male. Io per la mia strada: avevo la ragazza, ora mia moglie, un lavoro ed intrapresi altre esperienze (l’Arci, la Taricata); lui continuò l’esperienza della Gioc in parrocchia ed in giro per l’Italia. Ci siamo poi incontrati sporadicamente, ma il nostro rapporto di amicizia è rimasto sempre forte. In uno degli ultimi incontri con Tommaso, avvenuto dopo le vicende dell’abbandono dell’abito talare di Angelo Colucci (1984/85), mi confidò alcuni retroscena riferiti alla nostra amicizia che mi “spiazzarono” non poco, ma nello stesso tempo ho avuto la certezza di avere (ed aver avuto sempre) un amico “particolare” capace di superare le difficoltà che sorgono in ogni rapporto tra persone: mi disse che aveva dubitato della mia condotta morale riguardo ad una mia presunta richiesta di “raccomandazione per sistemarmi” escludendolo da questa iniziativa, il che lo aveva addolorato fortemente in quanto noi condividevamo tutto. Se non che ne aveva parlato con gli altri nel gruppo, a mia insaputa. Tommaso, ha avuto in coraggio di ammettere l’errore e di scusarsi con me. Questo era anche Tommaso.
Ciò che accadde successivamente non l’ho vissuto in prima persona perché mi sposai (1987) e per due anni con la mia famiglia siamo stati a San Vito. I contatti sempre più fugaci con i “compagni dello stanzino” almeno mi tenevano aggiornato sulle vicende della Gioc di San Michele. Sapevo che Tommaso portava avanti dei gruppi come responsabile animatore ed era persino diventato responsabile della Zona con particolare impegno nella espansione dell’esperienza nei comuni limitrofi. Pur non avendo risolto il problema della disoccupazione (in compenso gli era stato assegnata la pensione d’invalidità) la sua vita era cambiata radicalmente: a livello culturale, spirituale, politico, relazionale, affettivo. Da ragazzo di bar, bar di una volta, Tommaso negli ultimi anni della sua esistenza era diventato ragazzo impegnato, preparato, responsabile, ma nello stesso tempo sempre umile, pronto a mettersi in gioco e ad evidenziare le proprie contraddizioni.
Nel dicembre 1988 l’ho visto l’ultima volta. Passando per la piazza con la macchina lo vidi che passeggiava. Non so se ci salutammo… non lo so… Alcuni giorni dopo, il 9 gennaio 1989, mentre ero alla fermata dell’autobus, a Ceglie Messapica, mi comunicarono la sua scomparsa.
I pensieri, le emozioni, i rimorsi, che sono venuti fuori in questi giorni in cui ho raccolto queste poche parole, per me preziose, sono stati talmente forti da rendermi consapevole che quanto ho scritto non esprime pienamente tutto ciò che è accaduto realmente. Ho molti limiti tra cui una memoria quasi evanescente. Immaginate che già nel 1981 (credo) si pensava con Tommaso che si potesse scrivere un libro della nostra storia, con le nostre esperienze, con gli aneddoti, che parlasse di tutte le persone incontrate e conosciute, dei viaggi fatti, dei drammi, delle lotte, delle vittorie e delle sconfitte, di un mondo nuovo... Oggi, 18 aprile 2005, aggiungo: un libro che parlasse del cammino di liberazione fatto da un ragazzo emarginato, da un povero, che ha saputo riscattare la propria condizione.
Rocco D'Urso
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