LA LANCETTA DELLE ORE TOCCA IL NUMERO 7
LA LANCETTA DEI MINUTI TOCCA IL NUMERO 6
Stordita, non riesco a camminare. Guardo oltre, sento lo sconcerto che fulmina le poche certezze conquistate e mi accorgo, debolmente, della mia solitudine. Scopro lati di me che non so più riconoscere, ne ho paura, ed è una paura inconsistente, senza motivi apparenti, spogliata da ogni spavaldo tentativo di resuscitare una me che non vuole più venire fuori. E sembra debba accontentarmi di questo corpo mozzato, deviato dentro, succube di una colpevole maschera al veleno, che inebria il passato e annerisce il futuro che ho sempre sognato per me, e per il mio animo infreddolito, che non si riconosce nel girotondo che una forza dal sapore primitivo, quasi antidiluviano, ha plasmato in un tempo lontanissimo, impossibile da ricostruire. Redarguisco, mentre tristemente mi accorgo di non essere più capace di decifrare la mia strada. Dove vado, non lo so. E forse non l'ho mai saputo. Forse non mi importa di saperlo, e forse non mi è mai importato. Ma vado? Non so neanche quello. Mi sento ingannata dalle mie illusioni, e poi intrappolata nel vortice di quelle stesse, turbanti ed esili, nelle quali non mi è più concesso di poter sentire il sangue fluire, la musica avanzare. Né il cuore esplodere. Senza emozioni, crollo. E accascio il corpo stanco sulla sabbia intirizzita dal vento di questo inverno che, impellente, è esploso e non vuole lasciarmi. E' una paura fatiscente, scardinata dal complesso stellato che non smette di girare e che illumina l'atmosfera che sovrasta la mia irrequietezza. Non so nemmeno tornare indietro, comprendere gli errori passati, o cosa mi ha scaraventato nell'inferno dell'immobilità. Ho una vita senza amore. Ho una vita vuota, vuota di sensibilità. E invece vorrei planare in incantevoli distese di peschi in fiore, percepire lo zefiro di albe primaverili, addormentarmi in suggestive nuvole di neve zuccherata, per sentire l'ardore di una passione coinvolgermi il corpo, riscaldare la mente e le voglie, incendiate da sentimenti indistinti, ma profondi. Giaccio qui, solitaria e sola. Rapita da una trappola che assomiglia ad una quisquilia. O peggio, alla sopportazione. Alla rassegnazione. Volteggio nella disperata inquietudine salata che segna il confine tra il corpo e l'anima, e faticosamente cercano un contatto, si cercano tra di loro, arrivano spesso a sfiorarsi, ma faticano ad accordarsi. Perciò non si incontrano, si scontrano e, inevitabilmente, si feriscono. La luce muore, nell'ombra tentennante di questo inverno senza aurore, grigio, vittima di una morte nevosa che passa vicino al mio respiro stanco, sotto le macerie di un passato che giorno dopo giorno diventa breve, lasciandomi caduta e sconsolata, con lo sguardo cieco, rivolto nella speranza di vedere il mondo, questo mondo, e questa me capovolgersi, cambiare direzione e colorarsi di amaranto. Eppure resto ferma, mi inginocchio alle mie incapacità, e guardo dal basso il finto campanile che mi separa dal cielo in cui non credo. Forse vedrò finalmente, e i fiori profumeranno un vento caldo che per ora non c'è. Mi ha abbandonato la voglia di un divenire differente e, porgendo il pensiero indietro, rivedo i volti lontani e le lacrime possono solo sgorgare su queste gote affrante. Ma provo a riporre un po' della mia fugace fiducia nella forza suprema di questa solitudine massacratrice, nell'energia che sferza il fetore del mio cuore putrefatto, paradisiaco miraggio di questa inconsolabile esistenza che non ha più alcun sapore, orgoglio, desiderio di volare via, lontano dallo sconcerto che mortifica i sogni. E non mi resta altro da fare che legare le speranze, seppur vane, alla corrente dell'oceano incantevole che circonda e sovrasta l'universo senza nome che mi vede pioniera di un dolore indiscreto, che non ha bisogno di niente, che fa benissimo a meno delle nuvole sparse che si allontanano fiere nel cielo ormai scuro. In turbamenti diafani e contaminati dallo sgomento di questo raro momento di intimità con me stessa, accetto di aprire un regalo che mi son fatta tempo fa. Un regalo impacchettato, con un fiocco grande, rosso, per ricordarmi che dovrei amarmi e proteggermi, con un cuore sempre in partenza. Vorrei sorridere, donarmi adesso una lacrima di giubilo. E imparare a godere, a tripudiare. Alzarmi di notte, e sentirmi libera di librare nell'atmosfera marina di questo giorno che non vuole germogliare. Se arrivasse ora, andrei. L'amore che da qualche parte rabbrividisce, lo catturerei per sentire la vita, il sangue palpitare, e per vedere la luce della luna, assaporare il gusto di castagne cotte sui carboni ardenti di un fuoco acceso nel divino miraggio di un sentimento autentico. Straziante. Per sempre. Il vento soffia, ogni cosa passa e lascia la sua orma. E nella scia di questo disincanto, mi turbo al pensiero di un'altra condizione. Lascio che le gocce di pioggia scivolino sul mio corpo addolorato, incestuoso, vittima della vessazione che non può chiamarsi poesia. E' come un pugnale, il ricordo del non vissuto. Come quando apro gli occhi al mattino, e mi accorgo del letto freddo, sfitto. Del cuscino impregnato di lacrime mai versate veramente. Mi incanta lo sfacelo della mia integrità, e lascio scivolare via l'indenne caparbietà che mi copre e scopre le mie debolezze, ingannevoli torture pietrificate nella certezza di rivedere un albore differente, austero, meraviglioso. E caldo. Imponente. E mentre indugio, mi lascio sensibilmente accarezzare i piedi nudi dall'acqua fredda di quello stesso oceano che riflette il verde del miraggio sugli scogli assopiti dalla stanchezza di una vita passata ad aspettare.
D Es Demon A
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