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La generazione di mezzo

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In trent’anni di vita del “Nostro giornale” è la prima volta che decido di scrivere e sicuramente resterà l’unica. Ma in questa occasione per un augurio a mio padre e alla sua passione spesa in tanti anni non poteva che essere così. I miei ricordi partono da un’aula di “applicazioni tecniche” delle scuole medie dove in un giorno assolato di maggio passavamo il mordente ad una libreria che avevamo costruito; dal mondiale del ’78 in Argentina; dal foglio giallo del primo numero del “Nostro giornale”, quello del menhir in copertina, e dalle “brigate rosse”. Quando penso, infatti a quegli anni, ’77-’78, alla mia adolescenza, riparto sempre da lì. Il menhir, Aldo Moro, Paolo Rossi, la stella a 5 punte, applicazioni tecniche, la pagina gialla, la renault 4 rossa… Gli strascichi di quel biennio si prolungarono e la mia generazione fece in tempo a ritrovarseli di fronte, anni dopo, ancora innescati e caldi. Le frasi che ricorrevano erano le stesse, “movimento”, “collettivo”, cinghia di trasmissione del potere”. Ci accorgevamo di come ci fosse un retroterra comune trasversale, spesso fatto di slogan urlati e basta, ma a volte di passione sincera. La stessa che mettevamo incondizionatamente nell’altro enorme ricettacolo generazionale che impastava sogni, ideali e speranze. La stagione dei cantautori, infatti, non fu altro che uno spesso strato di pomata con cui anestetizzarci dalle brutture del mondo e una voce comune con cui rivendicare una società diversa, più giusta ed egualitaria. Tanti ci credevano altri recitavano l’ultimo clichê alla moda. Per questo guardavo (e guardo) con sospetto i fanatismi e gli atteggiamenti forzatamente alternativi di tanta gente che alla prima occasione buona ha dimostrato tutt’altra pasta che non quella sequela di buoni e alti ideali sempre declamati e mai messi in pratica. Malinconici paraculi dal decalogo standardizzato che si riempivano la bocca con frasi fatte e dall’onesta morale e intellettuale così altamente biodegradabile da non lasciare traccia. Ho/abbiamo imparato a distinguerli, a catalogarli, a non farci distrarre dal colore sbandierato, a soppesarli. Siamo cresciuti tra due super potenze e con lo spauracchio della guerra nucleare. Poi nell’89 il muro di Berlino è crollato. Ma in quegli stessi giorni c’era qualcosa che stava nascendo in modo discreto e che avrebbe finito per coinvolgere tutte le università del Paese. A Catania gli studenti di Fisica avevano occupato la facoltà dando inizio, di fatto, ad un nuovo movimento studentesco che i media avrebbero battezzato come “Pantera”. Subito dopo Natale ad una ad una le facoltà cominciarono ad essere occupate e noi a Firenze, che avrebbe ospitato l’assemblea nazionale, segnavamo su un grande cartellone le città che di giorno in giorno si accodavano. Tra le tante cazzate fatte è stato comunque un momento per crescere, per distinguere, nuovamente, chi ci credeva, da chi recitava una parte. Come quando, per rivendicare il diritto allo studio, occupammo la casa dello studente di viale Morgagni. Quattro torri di nove piani l’una, con mensa, lavanderia, bar, sale studio e cucine. Ci barricammo dentro in assemblea permanente, organizzando dibattiti, concerti, teatro, facendo turni al bar, mettendo in funzione la lavanderia e garantendo l’utilizzo delle sale studio. Un’esperienza che terminò con una forte condivisione interpersonale, a livello emotivo, e con i soliti furbi-antagonisti che fecero sparire i soldi accumulati con l’autogestione. Ma tornassi indietro lo rifarei. Ritroverei Reza il mio amico iraniano che aveva combattuto la guerra Iran-Iraq rimanendo ferito in uno scontro a fuoco; Francesco, che mi condusse diritto ad una ragazza, oggi mia moglie; Nino che arrivava in mensa con il megafono per propagandare le assemblee; Ulrich sempre con l’ultima copia de l’Unità nella borsa dei libri; Patrick che perse la ragione mese dopo mese e che un giorno, durante l’esame di chimica, si appoggiò alla lavagna, con il gesso ancora in mano, reclinò il capo, si piegò su se stesso e rimase così, immobile, in un gesto grottesco e drammatico che non dimenticherò mai. Cantavamo “No woman no cry” io alla chitarra e lui con gli occhi chiusi e la sua storia di africano alle spalle. Aveva lasciato la Nigeria, ma in Italia non gli toccò una sorte migliore. Se ne andava intanto Andrea Pazienza. Forse l’unico vero e proprio mito di quelle generazioni che nei decenni ’70 – ’80 assistettero alla reinvenzione delle forme espressive, tra avanguardia e sperimentazione, grazie a riviste come “Cannibale”, “Il male”, “Frizzer”, “Tempi supplementari”, “Alter-Alter” e, ovviamente, “Frigidaire”. Assistevamo ad un modo alternativo di concepire l’arte, al di fuori delle gallerie, dei testi, delle accademie, con autori (Andrea su tutti) che consapevolmente coniugavano elementi colti con una cultura di massa. I fumetti (d’autore, come vennero chiamati) e gli “scritti” che trovavamo quei mesi in edicola ebbero l’ardire di dialogare alla pari con la letteratura e la pittura che contavano, in un modo che mai era stato fatto prima e come non lo sarà fatto in futuro, facendo venire a galla tutto ciò che la forza di gravità dell’ufficialmente colto tendeva a nascondere. Poi Andrea Pazienza scomparve, nel giugno dell’88, stroncato da un’overdose di eroina e da allora è rimasto un buco culturale in quel settore, non più colmato. In quell’estate conobbi Giovanni Lindo Ferretti. Lui mi parlava di cavalli (la sua passione) io gli chiedevo cosa ne pensasse del rock italiano (erano lontani ancora i tempi del “Consorzio”). L’anno successivo lo incontrai ad una rappresentazione teatrale subito prima che l’est europeo fosse smantellato e ridisegnato. Una disfunzione temporale, peccato. Perché dopo non l’avrei più visto e perché avrebbe avuto senso rileggere quelle note che accompagnavano”Ortodossia” in cui CCCP sceglievano (e noi con loro) "l’est all’ovest, e non per ragioni politiche, quanto etiche ed estetiche. Che futuro per un’Europa sempre più in disparte, tenuta come avamposto dall’ingratitudine di un impero da lei stesso generato e favorito? Perché non ammettere l’esistenza di altre possibilità? Un muro di 2 metri, grigio, prefabbricato, serve da ostacolo alla vista e all’immaginazione. Al di là non c’è niente, niente che vale la pena di intuire o di conoscere. Al di là c’è una moltitudine non meglio definita che fa uso di ridicole automobili e di sapone ordinario, che si nutre di patate anziché di Fast Food, nostalgica di un paradiso perduto. Ai tanti che hanno scoperto l’america con cinquecento anni di ritardo, le nostre felicitazioni. Ognuno ha l’immaginario che si merita". Negli anni il senso di tutto ciò sarebbe cambiato; per poi ricambiare nuovamente tanto da rendere attuale il passato e vecchio il presente. Dopo la laurea sono rimasto alcuni anni a Firenze. Nel ’95-’96 ho assistito così alla volata di chi tendeva di restare all’interno dell’università. Tutti si giocavano le loro carte, per una borsa di studio, per un dottorato di ricerca, per una collaborazione. Io guardavo in disparte. Non dissi una parola e non chiesi niente a nessuno. Sono rientrato a Supersano e dal ’99 vivo a San Michele Salentino con la mia famiglia. Penso sempre le stesse cose. Niente scorciatoie, niente sconti, niente “amici di amici”. A costo di prenderla spesso in quel posto, a costo di battere continuamente la testa, a costo di arrivare a 36 anni per avere il primo salario. Abbiamo creato un bel gruppo e formato un’associazione culturale con quasi cento tesserati nel primo anno. L’amministrazione di centro-destra ci vede come fumo negli occhi, ma noi andiamo avanti senza farci strumentalizzare né da destra né da sinistra lasciando gli intrighi di bottega al di fuori dell’associazione. Suoniamo, organizziamo concerti, corsi, serate a tema, potendo contare su un comitato direttivo coeso e trasperente. E potrei concludere così, con la consapevolezza di essere appartenuto ad una generazione in parte fortunata in parte bistrattata e bastonata dalla storia. Una generazione di mezzo troppo giovane per alcuni versi e un po’ in avanti per altri. Che ci venga risparmiata, almeno, una nuova repubblica peggiore, se possibile, delle altre.
A mio padre.
Nando De Vitis

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