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NEI VICOLI CHE NON CONOSCONO ME

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di Desdemona
2 ottobre 2008 ore 4.56

Quanto grande è il mondo, quando non riesci a sentire che il flebile battito di un cuore distrutto da una solitudine indelebile? Cammino per questi vicoli, stretti e moderni, da quando sono venuta al mondo. Sento i muri parlare. Le loro voci, rese incomprensibili dal vento leggero che si apre da Sud, rendono chiaro solo il brusio. Ho provato a tendere l'orecchio, ma non ci riesco. Mi sento estranea alla mia stessa terra, amante nelle felicità ormai lontane e avversario nelle innumerevoli lotte con me stessa. Per difendere una me diversa. Per difendere una me che non ha saputo riconoscere la sua strada e che si è persa, da tempo, nel labirinto della titubanza e della confusione. Mi guardo attorno, e scruto ferocemente gli sguardi indispettiti di una piazza bagnata da un'ipocrisia crescente, resa tormentata dalla convinzione che la vita sia tutta qui. Nei gesti immutabili nel tempo. Nei caffè al bar la mattina presto. Nelle sterili e futili chiacchiere che accoltellano furenti l'intimità degli altri. Nei riprovevoli pettegolezzi che hanno il sapore amaro dell'invidia. Di quell'invidia che fa male solo a chi la prova e fa godere chi la subisce. Nell'accontentarsi di lustri e festini, ammanettando la mente in una prigione che genera ignoranza. Che si chiama ignoranza. O incoscienza. E solitudine, tanta solitudine in coloro che riescono a guardare oltre e attraverso, non potendo accettare di conformarsi alla regola del niente che rende vane le vite. Quanta pena riescono a farmi coloro che sprecano il loro tempo a cercare nei difetti altrui la ricetta per riempire la loro vuota esistenza! Quanta compassione per coloro che usano la lingua per sentenziare sugli altri! La immagino di ferro, quella lingua, pronta da essere giornalmente affilata per non perderne la potenza tagliente. La immagino di marmo, quella lingua, e biforcuta come quelle di un disgustoso abominevole rettile. I rettili! Che animali spregevoli, che animali superflui! E quaggiù, tra vortici di strade interrotte e tetre, troppi rettili strisciano da un marciapiede all'altro. Le serpi grosse, orgogliose e altezzose, vagano indisturbate e ammirate nel regno della loro infame fierezza. Le serpi più piccole, quelle peggiori e dal veleno nefasto, sono codarde. E vivono nascoste dietro gli scuri delle finestre e dietro le tende di legno. Tutte la stessa razza. Tutte serpi, maledette e inutili. E nessuno che senta il peso della responsabilità. Pochi si rendono conto di quanto siamo fortunati ad essere qui, su questa terra. Poter respirare. Poter guardarsi dentro e trovare tracce di qualcosa che si possa differenziare dal girotondo carismatico di questa bolgia senza sentimento. Non posso accontentarmi di restare a guardare il mondo girare, mentre dentro pullula il sangue della conoscenza. Della libertà. Della vita. Quaggiù ho sentito l'odore catastrofico di uno sparo nell'aria che ha ammazzato un giovane innocente. L'odore catastrofico di una lama conficcata nel petto di una madre colpevole di aver generato il figlio della follia. L'odore catastrofico di uomini che comprano l'approvazione delle menti ingenue per accaparrarsi poltrone e potere. L'odore catastrofico di una strada asfaltata male che ha risucchiato il sorriso di un ragazzo felice. L'odore catastrofico di macchine incendiate, ville derubate, donne violate. L'odore catastrofico dell'illusione. Del tormento. Della noncuranza nei confronti della propria vita. L'odore catastrofico di una chiesa sporca di fango, consapevole dei patti col diavolo di una setta ancora presente. L'odore catastrofico di un razzismo irragionevole. L'odore catastrofico della paura del diverso. Di chi rifiuta questa normalità tanto decantata, ma distruttiva. Pietosa. Turpe.
E nessuno che si sia mai fermato a chiedersi, perché? Perchè?
Sono scappata più volte, perché non c'è pace per chi vorrebbe solo respirare sciolto dai compromessi della villania che rende ridicolo un intero borgo, fatto di vero e falso. Di bellezza e crudeltà. Tanta crudeltà. Troppa, per un perimetro così breve. Torno spesso, e desolata. Chi concepisce la vita come un dono, resta isolato. Chi si trastulla inconsapevole in fontane di vino e passerelle di automobili belle, ma usate passeggia da un angolo della piazza all'altro con il naso all'insù, la giacca nuova e la mente vuota. Certo di aver conquistato l'apice del successo mentre, povero dentro, ha dimenticato di scartocciare la propria vita e gustarla fino in fondo come la caramella al caffè che sto assaporando in questo momento.
Soffro. Ma sento che vivo. E mi sento libera da un perbenismo ipocrita. E tutto questo lo urlo con la voce di cui sono capace, perché sono nauseata da una maggioranza senza cervello. Da file di anime in pena in processioni di falsità, idiozia e trivialità. La vita è un continuo martirio di sofferenze, tribolazioni, dolore e atroce sofferenza. Ma è anche incanto, agglomerato di piccole grandi meraviglie che bisogna imparare a riconoscere per poterne godere. Provo compassione quando mi fermo nascosta nella folla della piazza, e osservo i volti lussuriosi che sfilano l'uno dopo l'altro mostrando la propria infruttuosità. Ma quanto ignorante sei diventato, mondo, se si prova invidia per il superfluo? Per il vano? Per il niente? Quanta rabbia circola stanotte nelle mie vene dal sangue ghiacciato! E quanta pietà per me stessa, giovane donna illusa di poter abbracciare principi diversi, compatibili con la ragionevolezza donata all'uomo il giorno in cui è stato mandato sulla terra! Siamo finiti nel baratro della sconfitta, nel baratro della vergogna, nel baratro in cui vince il male, il peggiore, il disonesto, l'ignorante, il branco. Si, il branco! Perchè pochi sono coloro che riescono a vivere la solitudine come un momento speciale, intenso, in cui possiamo incontrare ciò che siamo nella nostra completezza. La nostra intimità. La nostra debolezza.
Non c'è miglior conquista che quella di riuscire a piangere, soli, di se stessi e con se stessi.

D Es Demon A infuriata, e illusa...

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