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I ragazzi della San Vincenzo

Ci sono posti in cui non vorremmo mai mettere piede, dove vivono persone chiuse in un mondo che la propria psiche ha costruito, un posto fatto di tanti piccoli mondi mentali spesso drammatici, posti che solo i famigliari ne conoscono l’esistenza, l’ubicazione, ma che di sfuggito qualche volta, noi tutti, ne abbiamo sentito parlare. Se dovessi immaginare un posto del genere visualizzerei nella mente, per induzione, uno stanzone fatiscente abitato da persone che si atteggiano in modo non normale e violento, con la bava alla bocca e gli occhi fuori dalle orbite e probabilmente ci azzeccherei perché da qualche parte, in qualche ospedale o clinica, in molte case ci sono situazioni del genere. Ma qualche anno fa nel nostro piccolo paese di provincia, apparentemente tranquillo e vivibile, accade qualcosa di strano. Si comincia a vedere in giro un gruppo di ragazzi, non del luogo, e ci si accorge che a San Michele Salentino è stato realizzato un posto chiamato “Clinica San Vincenzo”. Se ne sono accorti tutti… un gruppo così numeroso non passa inosservato in un piccolo paese. I ragazzi escono spesso accompagnati dagli operatori sanitari. Lo sguardo dritto in avanti, un po’ impauriti, qualcuno si prende per mano. Una piccola processione senza Dio, perché, probabilmente, Lui è impegnato in celebrazioni rituali più ufficiali. Qualcuno si lamenta perché passano spesso sul proprio marciapiede, sono gli stessi che al passaggio di una “statua” lo lavano, imbiancano il muro ed escono il lenzuolo ricamato. Non c’è spazio sul proprio marciapiede per chi è senza Dio. Villa Verde di Lecce è un altro posto dove non si manda più qualcuno nei momenti di rabbia, come per dire “il tuo posto è il manicomio, è li che devi andare”, ora quel posto si chiama San Vincenzo. “Passano quelli di San Vincenzo”, si ride tra i denti e si invita l’amico ad accodarsi al gruppo, tanto per scherzare.
La prima volta che ho messo piede nella clinica è stato nel 2003, ci avevano invitati ad animare con le chitarre la messa di Pasqua, e prima di entrare, non lo nascondo, avevo timore di ritrovarmi in un posto già immaginato. Invece con grande sorpresa non c’era niente di simile, il che mi ha molto meravigliato: ambienti sani, puliti, ordinati, operatori competenti e, cosa importante, molto disponibili ed affettuosi con i ragazzi. I ragazzi… Annamaria con la sua aria un po’ imbronciata, Luca dai modi gentili e cerimoniosi, Antonio con i suoi occhi tranquilli, Sante con le sue richieste fatte quasi piangendo, Mino con la sua solitudine, Pierino con il suo atteggiamento altero, Vito con le sue domande sulla fede, Donato immerso nel suo mondo ma pronto a rispondere con competenza alle tue richieste, Giuseppe anche lui solitario, e… Ci ritroviamo, da allora, con una certa periodicità, loro, noi, le nostre chitarre e si canta, a volte si balla quando si accenna un ritmo o una canzone sostenuta, si parla. Non conosciamo granché delle loro storie né tanto meno chiediamo della loro vita per non essere invadenti e poco rispettosi ma dopo questi anni li abbiamo conosciuti per quello che ora sono. Annamaria, invece, ci ha raccontato che è sposata ed ha una figlia di pochi anni. Una volta gli ho chiesto della sua piccola e lei è scoppiata a piangere. Mi son reso conto di aver sbagliato ed ora cerco solo di “ascoltarla”. Nell’ultimo incontro mi ha detto che i suoi famigliari gli hanno portato le foto. “Le vuoi vedere?” Si rivolge a Federica, assistente sociale e nostra referente, per chiedere l’autorizzazione. Federica acconsente ed io la guardo per la conferma. “E’ l’unica persona a cui ci tengo veramente. Il mio cuore, i miei pensieri sono tutti per lei” mi dice mostrandomi le foto. Mino il solitario, invece, ha una Fender ed ama il rock. Basta accennare con la chitarra un classico che lui parte cantando. “Come si sentiva la mia voce?”. Dagli un microfono a Giuseppe e lui ti fa, senza fermarsi, tutto il repertorio di Eros Ramazzotti. E’ troppo forte. Negli ultimi tempi si vede in giro qualcuno che esce anche da solo, altri ospiti intraprendono un’attività lavorativa. Piccoli segni di un miglioramento personale che gratificano i responsabili della struttura che da sempre hanno lavorato per una integrazione reale con tutte le componenti sociali di San Michele. Pezzi di “muro” cadono piano piano, altri se ne ergono alti e maestosi fatti a posta per dividere, bloccare, impedire. Fossero picconi le nostre chitarre… abbiamo solo corde che vibrano e che ci solleticano l’anima. E quando mi chiedo se tutto questo serve a qualcosa, penso a quell’attimo in cui la porta di San Vincenzo si chiude alle nostre spalle: siamo stati bene con voi.

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