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Epifani Giuseppe

(3 luglio 2003 – Pino Epifani si racconta tramite un’intervista per l’Associazione "Movimento Circolare – io ti racconto)

Com’è nata la tua passione per la musica e l’approccio, quindi, con il mondo musicale?

Intorno ai 13÷14 anni, insieme ad un mio amico, Mimmo Urso, capimmo di avere un comune e forte interesse per la musica e un sogno ancor più grande: imparare a suonare la chitarra.

Ci ritrovammo, così, a "bussare" alla porta di Felice Antelmi che, più grande di noi di alcuni anni, era già piuttosto bravo con la chitarra.

Felice, dopo essersi liberato degli impegni della giornata, ci dedicava qualche ora il pomeriggio e su dei fogli volanti, dove aveva disegnato le sei corde della chitarra, ci indicava con dei puntini il posto dove mettere le dita per ottenere un determinato accordo.

Iniziammo così a costruire le prime melodie e a suonare le prime canzoni di cui ricordo, in particolare, "Cara Madre" che Felice cantava e suonava molto bene.

Grazie, quindi, a questa amicizia e ai "foglietti", che cominciavano a passare di mano in mano, diversi ragazzi si sono avvicinati alla chitarra.

Qual è la musica che ascoltavate e che vi stimolava?

La musica che il nostro gruppo di amici, tutti con la comune passione per la chitarra, ascoltava più volentieri, era quella dei cantautori, in generale, e in particolare quella di De Gregori.

Il fatto stesso, poi, oltre a ciò che la musica ci trasmetteva, di riuscire a suonare le stesse canzoni che ascoltavamo era un motivo che ci "prendeva" ancora di più.

Un’altra cosa che accomunava tutti noi ragazzi del gruppo, e di cui voglio portare testimonianza, è stata la fortuna di avere un punto di riferimento.

Penso tu voglia riferirti al cosiddetto "stanzino".

Si stavo parlando proprio di questo.

Ci vuoi spiegare l’importanza che questo luogo fisico ha avuto per te e per i tuoi amici?

Rispetto alle generazioni precedenti la nostra fortuna è stata quella di avere un terreno in cui far germogliare e crescere i nostri desideri, ossia la Chiesa Parrocchiale, e una guida come Don Angelo capace di tenere insieme questo gruppo di ragazzi, con le loro storie, le loro fantasie, le loro debolezze, facendo crescere in loro l’amore per la musica, da un lato, e facendoli crescere come persone dall’altro.

Per questo voglio dire <> a Don Angelo (presente all’intervista n.d.r.), che sono molto contento di rivedere, <>.

La cosa che, ancora oggi, ricordo di più è la giornata dell’8 maggio. L’8 maggio per me è sempre una festa. Nella Parrocchia si organizzava la festa di San Michele e per noi ragazzi era l’occasione di fare sfoggio di ciò che avevamo imparato, nel corso dell’anno, organizzando un piccolo spettacolo che presentavamo in piazza.

Ricordo con tenerezza che, poiché tutti noi del gruppo sapevamo suonare, era necessario fare una selezione, non potevamo salire in 20 sul palco.

Cerano quindi delle "rivalità" interne?

Si anche perché la festa per San Michele era la nostra massima aspirazione.

Complice ancora Don Angelo, in quanto eravate al suo compleanno, in campagna, c’è stato per te un incontro particolare. Cosa è accaduto?

Mi fu chiesto da Lorenzo Caiolo, coordinatore del gruppo folkloristico "Taricata" di entrare nel loro organico come bassista, cosa che io accettai e che ha rappresentato un salto di qualità potendo suonare in un vero e proprio gruppo con dei musicisti.

Ho suonato con loro dal ’78 all’’82, finchè non ho avuto l’incidente alla mano (Pino ha perso un dito sul lavoro n.d.r.), facendo concerti in diversi posti, pure in Germania, ed entrando anche in una sala di registrazione.

Dopo il periodo del "fai da te" avevo preso lezioni da un maestro di San Vito (20.000 lire al mese che racimolavo facendo il cameriere per 5.000 lire la domenica) e quindi l’esperienza con la "Taricata".

Hai iniziato con la chitarra, com’è che sei passato poi al basso?

E’ uno strumento che mi è sempre piaciuto, che dava il tempo.

Anche per l’acquisto del basso devo tirare in causa Don Angelo.

Sin da bambino ho iniziato ad imparare il mestiere di falegname, cosa che, col passare degli anni, facevo con piacere.

Essendoci la necessità di rifare i contenitori in legno, per gli altoparlanti della Chiesa, stipulammo con Don Angelo un "contratto" con cui, in cambio dei contenitori che io avrei dovuto fare, la Chiesa si impegnava a darci una batteria elettronica utilizzata per i canti domenicali.

A lavoro ultimato ci rendemmo conto, però, che un basso ci sarebbe stato più utile. Ci recammo, quindi, con don Angelo, dal rivenditore che aveva fornito la batteria elettronica per vedere se si potesse scambiarla con un basso, e così fu.

E’ stato il mio unico basso che ho poi riposto nell’astuccio nell’’82 e che non ho più ripreso.

E’ il basso che utilizzavi con la "Taricata"?

No, con la "Taricata" usavo un basso acustico.

Quello che avevamo scambiato lo usavamo per suonare tutti i giorni, mentre per i grandi eventi, come l’8 maggio, lo chiedevo in prestito a Mimino Gioia che aveva un basso di livello superiore.

Che repertorio proponevate con la "Taricata"?

Canzoni di estrazione popolare, per la maggior parte. C’erano anche dei brani originali che componeva il maestro del gruppo, Mario Ancora, un musicista con la M maiuscola.

Anche la musica popolare, come quella dei cantautori, era per me uno "stimolo".

Cosa che invece non succedeva con la cosiddetta disco-musica, che reputo piatta e che ancora oggi rifiuto.

Ascolto sempre con piacere e con lo stesso gusto la musica del mio tempo, perché è qualcosa che mi appartiene, che è mio e che mi fa ricordare.

Diciamo che, per una certa generazione, è stata la musica giusta al momento giusto. L’importanza dei testi, anche politicizzati, di forte impegno sociale, da un lato, la relativa facilità di suonare quella stessa musica che si ascoltava, come dicevamo prima, dall’altro

Infatti, mentre maturava questa passione per la musica, c’era una contemporanea crescita di valori, di sentimenti sani. Non c’era solo il fatto di saper suonare, ma facevamo molta attenzione ai testi. Rocco, in particolare, dava un’enorme importanza ai testi e in base ai loro contenuti poneva dei veri e propri "veti" quando si trattava di predisporre la scaletta per l’8 maggio, privilegiando le canzoni che potevano trasmettere qualcosa a chi ci ascoltava.

Sono stati spettacoli molto belli e partecipati, la piazza si riempiva e noi, pur rischiando di far esplodere i nostri amplificatori costruiti a mano, perché tutti volevano attaccarci il jack, ci sentivamo soddisfatti.

E, ancora oggi, questa passione mi accompagna, anche se a causa dell’incidente avuto non ho più suonato. E’ stata una cosa traumatica.

Quando è successo?

Nel 1982, suonavo ancora con la "Taricata" e ritrovarmi all’improvviso senza mezzo dito è stato tremendo. I pianti che ho fatto di più erano proprio dovuti al fatto di non poter continuare a suonare.

Posso fare comunque un bilancio positivo di quel periodo, che abbiamo vissuto molto intensamente, e molte volte faccio un raffronto (così come viene fatto tra tutte le generazioni) con i ragazzi che oggi hanno 17÷18 anni.

Non mi sento di criticarli, ma sono consapevole che la passione per la musica non può essere iniettata, è qualcosa che uno ha e che coltiva.

Vedo tanti ragazzi che, come diceva giustamente Felice (Felice Antelmi, intervistato la stessa sera, n.d.r.) "stanno insieme, ma sono soli", non c’è niente che li unisce, tranne la marca del telefonino.

Io vivo a S. Vito e tutte le sere vedo centinaia di ragazzi che si radunano, vicino alla Chiesa Madre, ma stanno lì in piedi senza nemmeno discutere, sono soli perché non sanno cosa dirsi.

La musica ci ha fatto scontrare, litigare, ma nello stesso tempo ci univa e ci stimolava.

Credo che se riuscissero a cogliere questo senso, i giovani di oggi assaporerebbero le nostre stesse cose.

Non so cosa ricorderanno e se, come sta succedendo questa sera, ogni ricordo, anche semplice e banale, sarà come toccare un tasto della memoria e dell’emozione.

Ti ricordi un episodio curioso o particolare avvenuto nello "stanzino"?

Lo "stanzino" non è "l’episodio", lo stanzino è "l’istituzione".

Era un laboratorio in cui si faceva e si sfaceva tutto "qudd ca ‘ni passev inta la cap"; si organizzava, si pensava, si discuteva, si "rrusteva, perché stava pur lu camino".

Lo stanziano è stato il tetto del nostro gruppo, non c’è un evento ma tutti i nostri eventi stanno lì dentro; tanto che quando ho visto che non c’era più mi son sentito come se avessero demolito la mia casa paterna.

Era molto piccolo, 3 m x 3 m, con il camino di fronte e una stanza affianco che fungeva da deposito della chiesa, dove stavano tutte le panche e tutte le attrezzature che non venivano utilizzate.

Era comunque la nostra ricchezza.

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