Arte, cultura, tradizione
Aggiornato il 10/12/2009
"Nelle ristrettezze del vivere quotidiano
c’era più gusto in ogni cosa
quando si aveva bisogno di tutto"
Negli anni 45-55 in Massarianova, sconosciuto borgo nell’arida terra del Salento, viveva un adolescente, Colin, dotato di una straordinaria sensibilità e ispirazione poetica.
I pochi abitanti vivono di quello che riescono a trarre con stenti e mortificazioni dai piccoli poderi che posseggono.
Accanto le abitazioni vi é la stalla per il mulo e il carro, l’unico mezzo di trasporto e qualche rara Bianchi.
Non esiste fognatura e si sbarazzano dei loro rifiuti nella carrizz che passa quasi ogni giorno, trainato da un mulo non sempre accondiscendente e guidato da un eccentrico personaggio chiamato benevolmente da tutti, Cicc la carrizz.
Il clima dalle temperature eccessive determina i loro atti: devono levarsi le mattine, al buio, prima dell’alba, e partire nei periodi invernali sotto scrosci d’acqua coperti da giacche di plastica.
Il pensiero fisso a procurarsi il cibo giornaliero, limita l’attenzione ai loro piccoli, e ai bebé somministrano la provvidenziale papaverina.
Per esigenza di vita non esistono compromessi: per i figli esiste la legge del bastone, o meglio, fai quello che devi fare e non ti succede niente.
Colin con la banda spadroneggia per le vie deserte, gran parte dell’anno, fino a scordarsi dei limiti della buona creanza, per aspirare quella dose di adrenalina, oggi sostituita dalla droga. Sconfinano nelle campagne, sicuri che i grandi sono in altri poderi affaccendati, e spingono i loro giochi nell’oltraggiare la natura, come prendersi di mira con un fitto lancio di fichi in faccia ed essere inseguiti da minacce di morte dall’imbestialito Cosimo di Barnabbät nel vedere i suoi alberi mal ridotti.
Il fanciullo però è dotato di una sensibilità non comune, eseguiva in fretta per andare a giocare i lavori assegnati, ma dava a modo suo una mano ai lavori di campagna.
La raccolta dei fichi, quella delle mandorle, la difficile raccolta delle ulive che capitava col freddo intenso dell’inverno, e i fischi dei venti da far rabbrividire.
Egli s’intrufolava ovunque, sapeva troppo per la sua età. Conosceva gioie e drammi di tante famiglie.
Vive tra sposalizi e funerali, tra ruberie e assassinii. Tra feste e pellegrinaggi dove s’imbatte in larve umane che imprecano e pretendono di ottenere la grazia.
Osanna le mangiate festive, che mangiate! la fame trasforma in pasti regali il misero piatto del contadino, fino a sentire dire dal padre: mang nu rre mang cumm a mmé! (neanche un re mangia come me). Chi può dire che la fame fosse una benedizione, sta di fatto che si benediva ogni cosa capitava sul tavolo.
Sfotte gli ubriaconi e adocchia un miserabile che dà i pochi soldi rimasti per comprare l’unica volta in vita sua una forma di pecorino, e esaudire un desiderio della moglie. Si ritrova con un formaggio pieno di buchi fatti per l’assaggio preteso da tutti, come usanza.
La frustrazione e testardaggine lo obbligano a recarsi con la bicicletta nella masseria del capraro che lo ha imbrogliato.
In tanta ristrettezza, Colin, come pure i suoi compagni, deve portare contro voglia e umiliazione le primizie e il meglio ai don del paese e tenta il padre irremovibile nella convinzione che quei signori nel bisogno - con una parola ti possono cambiare la vita da cosi a cosi -.
Il passatempo dei paesani gira tra i tre bar e l’unico cinema aperto un giorno la settimana, ma che presto coi suoi films darà una grande svolta al borgo. E la piazza, l’enorme piazza Marconi, viene percorsa in lungo e largo di sera fino a notte fonda.
I deboli, i poveri, i persi di testa, subiscono i lazzi divertiti di quasi tutti, ma Colin si mette dalla loro parte:
Pupucc, un handicappato, esce con la paglietta nuova avuta in regalo dal fratello, e subito gli vien tolta per finire calpestata in euforica allegria. Mentre l’indifferenza affligge i poveri genitori più della sorte del loro figliolo.
Il piccolo Rafel, non dalla malattia ma dall’indecente miseria in cui vive, viene emarginato e respinto dai compagni.
Colin lo porta al cinema e ai giochi, disconosce quella crudele mentalità. Lo ritrova su una lapide al cimitero, e sente dire dalla madre: la leucemia si é portato via il mio buon angelo.
La giovincella frettolosa di svuotare nel concimaio gli escrementi della famiglia scopre sette lire tra le feci e recuperatole a fatica storcendo naso e sentimenti, non indugia a spenderli per realizzare quei desideri tanto sognati: una bambola, fatta subito a pezzi dal fratello.
Una volta l’anno é usanza andare a piedi a Oria in pellegrinaggio. Colin s’inebria della fratellanza aleggiante tra la gente nell’aiutarsi a portare i fagotti, ma si accorge che sono altri i pesi a curvare certe persone, quei pesi che si portavano dentro:
Una mamma angosciata dal rischio che corre il proprio figlio nel perdere la vista, grida: se la croce si deve portare per tutta la vita, che vita é! Fino a quando giunge alle orecchie volutamente tappate la recita di pie donne del quinto mistero gaudioso: una luce la riporta ad essere quell’ape regina qual’era una volta tra le amiche.
Altri mendicanti, osano con Dio quello che non possono con gli uomini: pretendono la grazia dai Santi Cosma e Damiano, se non che ci state a fare sugli altari!
Mentre una coppia di vecchi rinuncia e torna indietro tra l’indifferenza degli astanti: la croce dei nostri figli infami ce la portiamo fin nella tomba.
Le feste sono occasioni per riunirsi e i bambini a Natale con lettere sotto i piatti, promettono che saranno più buoni, e i padri quasi commossi stentano a sborsare una o due monetine.
Ad ogni modo, per tenere buoni questo branco di piccolo in Massarianova, i grandi approfittano con l’esagerare racconti superstiziosi, frammisti a credenze di spiriti maligni e paurosi: lu pusc, li muriscyen, li cuppulin russ, li yavuryedd.
E accadde quello che non doveva succedere, Colin spinto dalla curiosità, entra nel canneto, contro la raccomandazione del fratello maggiore: non entrare mai là dentro. Da li l’acqua piovana sparisce e va a finire al mare.
Si sa come sono i bimbi, Colin assieme a Martin suo compagno e vicino di fondo, si avventurano nel canneto e vi sprofondano.
Si avventurano per grotte e cunicoli, superano laghi e torrenti, aggirano vulcani di calce in eruzione e s’imbattono in quegli spiriti vivi nella fantasia paesana.
Con essi vanno verso il mare e nel meraviglioso straordinario paesaggio sotterraneo salentino, scoprono un mondo tenuto segreto dal popolo dei Messapi.
La contrada del fondo paterno viene chiamata sobbAtaén e nessuno ormai sa spiegarsi il motivo di tale citazione, ma Colin sulla via, proveniente dalla contrada Cotogni, proprio sotto le squallide casupole di sobbAtaén ammira una fantastica cittadella in miniatura, con templi statue e palazzi, ed ha un nome sbalorditivo.
Proprio a lui, amante della storia romana, al perspicace Colin, viene svelato uno dei più fitti misteri della più grande e cruente sconfitta di Roma a Canne, causata non dal grande condottiero cartaginese Annibale che per astuzia fu paragonato a Ulisse, ma dai Messapi.
E a dare prestigio a questa nobile stirpe fu un figlio segreto, della regina Hatshepsut, in fuga dall’Egitto: Aka Mur il promotore del mistero dei sotterranei salentini.
Colin lascerà felice come un passero Massarianova per Roma inseguendo i suoi sogni.
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