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Tony D’Urso, l’assenza che ci manca


di Rosaria Gasparro
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Aveva chiesto a Ninì del bar degli amici se c’era qualcuno che nel nostro paese s’interessasse di teatro. Mi aspettò all’uscita da scuola. Con il viaggio nello sguardo, l’abitudine all’incontro, i dettagli colorati di un sentire altro, l’odore dell’altrove. Conobbi così Tony D’Urso, ventisette anni fa.
D’allora ospite amico delle mie estati e del focolare della mia casa. E il suo arrivo era l’inquietudine della conoscenza, della ricerca, la febbre dei luoghi. Era l’avventura, il coraggio e la leggerezza di percorrere strade insolite, fuori dai sentieri battuti, dove il senso deve bilanciarsi con la marginalità, la gioia con la precarietà. La bellezza, comunque inseguita, sulle vie del rifiuto.
Mi portava i suoi viaggi insieme all’Odin: il Cile, il Perù, il Venezuela, il Brasile, la foresta amazzonica dove il suono della pioggia arrivava da lontano, inquietante e sconosciuto, dove gli indios yanomami preparavano i loro riti per lo scambio, uno dei tanti “baratti” culturali a cui l’Odin ci ha educato. E ancora Cuba, New York, Argentina, Spagna, Francia, Danimarca, Jugoslavia… Sempre cercando di catturare con un clic una materia così evanescente ed effimera. Costruendo una biografia nomade di relazioni sparse, di un paese dilatato, dove l’arte, la politica, l’impegno e il senso diventano vita, dove ovunque si può essere a casa.
E si creava così un ponte tra quelle esperienze e la mia periferia, dove la solitudine s’intrecciava con la grazia e la cultura lontane, avvicinandole. Devo a Tony la mia iniziazione, la conoscenza del terzo teatro, dell’ISTA, il teatro antropologico, dei grandi pensatori della scena contemporanea: Eugenio Barba, Grotowski, Cantor, di Cesar Brie e di Iben Nagel. Una seduzione continua del luogo dello sguardo. Così è potuto accadere che in questo piccolo paese si siano consumate, quasi vent’anni fa, esperienze di grande valore umano, culturale a artistico, esperienze poco visibili, minoritarie, dove pochi sembrava il numero giusto, che hanno visto il coinvolgimento dei più grandi teatri di Puglia, dai Koreja al Kismet. Era un’avanguardia che indicava la luna, ma, come diceva Brecht, devi stare un passo avanti, non due, se no perdi di vista tutto.
Un po’ ci eravamo persi di vista negli ultimi anni, finchè non ci siamo rivisti a fine agosto. Tenace, combattente, pieno di progetti e di futuro, come se il suo corpo non ci fosse, Tony se n’è andato il giorno del compleanno della figlia. Ci sarebbe voluto un tempo supplementare che non c’è stato. Un rito laico, in cui i suoi amici e compagni hanno suonato il loro saluto, il loro dolore per la perdita, come nelle parole di Paola,
“di una persona irriducibile a qualsiasi schema
di un papà fuori da qualsiasi luogo comune
di un fotografo a volte quasi visionario
di un compagno spiazzante
di un uomo troppo poco aiutato dalla vita
di un essere di strabordante energia.”
Le sue foto, come un pozzo profondo da cui tirare fuori la sua storia nelle storie, occupano in bianco e nero l’assenza che ci manca.

Tony ha fotografato alcuni spettacoli teatrali della compagnia “A sud del tempo”. Le foto allegate si riferiscono agli spettacoli “Nel nome di un genere” e “Ёnderr e madhë (Il grande sogno).

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