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L'ISOLA
CHE C'E' STORIA
DEL ROCK Se c’è una data che può essere assunta, se non proprio come l’inizio, di sicuro come momento in cui la miccia del rock si è accesa, questa non può essere che il 1954. Bill
Haley incide Rock around the clock
e pur non avendo successo il pezzo, riproposto l’anno seguente nella
colonna sonora di Blackboard jungle,
è una miscela esplosiva che da avvio al fenomeno del rock’and’roll. I
giovani, che diventano da questo momento una “categoria” con
peculiarità specifiche, si identificano in questa musica e soprattutto ne
metabolizzano l’intrinseco potere sovversivo codificando un proprio
mondo, contrapposto a quello della società adulta, esterna nei vestiti,
nelle acconciature, nelle idee, negli atteggiamenti. I
primi eroi del rock, voce ufficiale da qui in poi dell’irrequietezza
giovanile, sono belli e dannati, come tutti quelli che si susseguiranno
negli anni, e disegneranno con i loro comportamenti provocatori e
anticonformisti un’immagine antagonista che sarà propria di tutta la
cultura rock. Nasce
l’idea del giovane come precisa figura sociale acquisendo un proprio
codice con dei precisi riferimenti esclusivi. La
musica è uno dei principali prodotti rivolti ai giovani in modo sempre più
escusivo e mirato. Il
rock’n’roll e i giovani si incontrano, si scelgono e da questo momento
in poi la fascia giovanile sarà il laboratorio in cui si esperimenta il
“nuovo”. Il
primo “re” indiscusso fu Elvis Presley che traccerà, con la sua vita,
vizi e virtù che accumuneranno gran parte dei suoi successori,
proponendo, con atteggiamenti carichi di allusioni sessuali una musica
eversiva in cui i giovani travasano tutto il loro disagio. Arrivano
gli anni sessanta e il rock fa un passo decisivo. Compare sulla scena Bob
Dylan e la musica popolare mostra il suo lato intellettuale e poetico
dimostrando che questa è una dimensione possibile. La
musica di Dylan è ancora legata fortemente all’esperienza del folk e
del blues, ma lo stile del canto e i testi fanno vedere chiaramente che si
può guardare il mondo da un nuovo punto di vista. La
poesia beat mischia il proprio codice genetico con il rock
e ciò che viene fuori è un ibrido potentissimo in cui
controcultura e militanza politica tracciano un nuovo linguaggio. Le
canzoni di Bob Dylan, apparentemente dimesse e poco aggressive, si
adattano perfettamente al momento storico attraveso un canto
anticonvenzionale e delle soluzioni metriche che rendono musicale ciò che
sulla carta non lo sembra affatto. In
Italia, allora pochissimo informata di ciò che accadeva nel modo del
rock, se non con enormi ritadi, si venne a conoscenza di tutto questo
grazie alla famosa frase di Jhon Lennon: “Dylan mostra la strada” che
fu stampata sulla copertina del 45 giri Like a rolling stone. Ma
Dylan, in un certo senso, è già altrove. Lo
si capisce al concerto di Newport del 1965, nello stesso Festival che due
anni prima lo aveva consacrato come mito emergente, in cui si presenta in
scena con un vestito eccentrico, la chitarra elettrica ed una band diversa
dal solito. Il
pubblico lo rifiuta e lo contesta duramente fino a costringerlo a
ritornare sul palco, da solo, con la chitarra acustica. Il
tempo darà poi ragione a Dylan e l’album Highway
61 revisited, pubblicato in quell’anno rimane a tutt’oggi una
delle pietre miliari del rock e in assoluto uno dei dischi più importanti
della musica popolare. Su
pochi periodi della storia più recente è stata operata una rilettura
sistematica, spesso anche fuorviante, come nel caso degli anni sessanta. Non
di rado la memoria, o meglio il sentimento nostalgico di certo revival, può
indurre in interpretazioni non del tutto corrette, rimuovendo ricordi
ritenuti ingombranti e favorendo l’esaltazione di aspetti del tutto
marginali. E’
incredibile, per cui, come certi interlocutori e/o addetti ai lavori,
ricordino quegli anni come l’era delle canzoni da spiaggia e dell’hully
gully. Certo
c’era anche questo, insieme ad altro, come d’altronde accade in ogni
periodo che riproduce una molteplicità di fenomeni sociali; ma se proprio
dobbiamo indicare un punto unificante allora è doveroso ricordare che
negli anni sessanta si è verificato un fenomeno unico, forse
irripetibile, ossia la diffusione planetaria di un sovversivo e
generalizzato culto dell’utopia. Sembrava
davvero che il mondo fosse ad un passo dalla rivoluzione, o quantomeno da
una trasformazione irreversibile. Per una stagione tutti i giovani del
mondo ebbero un solo linguaggio, un unico codice, e la convinzione che
il potere fantastico di questa nuova avanguardia ruotasse intorno
alla musica. “Vogliamo
il mondo e lo vogliamo adesso” dirà poi Jim Morrison, e la musica
diventò un regno immaginario dove il popolo giovanile potè sperimentare
una visione del mondo inedita e sovversiva. Solo
così si può comprendere l’icredibile esplosione creativa che si ebbe
in quegli anni. Fu in assoluto il momento della grande invenzione, con una
intensità vertiginosa e assordante che il mondo della musica e
dell’arte non ha più conosciuto e che nemmeno la sprezzante e
sclerotizzata arroganza della cultura ufficiale ha potuto ignorare. I
giovani iniziano a percepire di essere portatori non solo di un generico
desiderio di autonomia, ma di veri e propri nuovi valori. Il
pacifismo e il movimento dei diritti civili, soprattutto riguardo alla
lotta per l’integrazione dei neri, irrompono in un processo di
mobilitazione che culminerà (con le poesie di Dylan elevate a slogan)
nella marcia dei duecentocinquantamila su Washington e il famoso discorso
di Martin Luter King che inizia con “I have a dream”, in assoluto la
citazione più ricorrente nella storia del rock, mentre parallelamente
prende sempre più consistenza l’idea di un movimento studentesco, la
cui convenzionale data di nascita viene stabilita con la rivolta del
campus di Berkeley, del 1° ottobre 1964. Attraverso
tutto questo cresce un forte senso comunitario che troverà il suo apice
nei grandi raduni pop, alla fine del decennio, dove si tenterà una vera e
propria rappresentazione simbolica dei nuovi modelli di vita. Il
mondo era in attesa di un’eplosione, e questa avvenne in modo tale che
mai la storia ha complottato così profondamente e abilmente, come nel
caso dei Beatles, per far convergere un’infinità di fattori,
combinatisi a perfezione, quasi per miracolo. Tutto
ciò che li riguarda sembra deciso da un destino forte e prepotente,
bisognoso di una storia paradigmatica. I
Beatles sembrano addossarsi anche lo strano destino di essere l’episodio
centrale della storia del pop. La loro corsa creativa rappresenta e
contiene tutti questi cinquant’anni di rock come una metafora
riassuntiva, una potente allegoria della storia di un’evoluzione,
individuale e collettiva. Se si confrontano il primo disco e l’ultimo
nessuno potrebbe mai credere che si tratta dello stesso gruppo. I Beatles
partono dal Rock’n’roll di Chuk Berry e lo portano fino a conseguenze
allora impensabili. Capire
il senso di questa avventura, significa capire molto di quello che siamo
oggi. Mai nessuno ha così potentemente “inventato” la musica.
Difficile capire oggi la portata di tutto ciò, in un’epoca quasi
assuefatta alla ripetizione, ma quando le loro musiche uscirono erano
qualcosa che, semplicemente, non esisteva. Arriva intanto il 1967, in assoluto l’anno più prolifico per il rock, ed uno dopo l’altro si succedono una serie impressionanti di esordi per la portata dei nomi: escono, infatti, il primo album dei Doors; dei Velvet Underground; di Jimi Hendrix; dei Traffic; dei Grateful dead; dei Pink Floyd; dei Jafferson Airplane. E
poi ancora: Tim Buckley pubblica "Goodbye And Hello”, esce "Songs
of Leonard Cohen", spopolano i Procol Harum con "A Whiter Shade
Of Pale" (brano classicheggiante ispirato all'"Aria Sulla Quarta
Corda" di Bach), Frank Zappa pubblica "Absolutely Free", i
Red Crayola "Parable Of Arable Land", manifesto del loro rock
"free form freak out", in bilico tra rumorismo e psichedelica,
la polizia entra nell'abitazione di Keith Richards a West Wittering, nel
Sussex e Jagger e Richards vengono arrestati per possesso di droga,
muoiono Otis Redding a 26 anni, Woody Guthrie, uno dei grandi maestri del
folk e Brian Epstein, inizia la stagione dei grandi raduni pop-rock con il
festival di Monterey. La
“summer love”, l’estate
dell’amore, si avvicina e i Beatles sdoganano definitivamente il rock
portandolo ad una piena consapevolezza di forma d’arte con l’uscita in
tutto il mondo, il 1° giugno del ’67, di Sg.t
Pepper’s lonely hearts club band. L’album considerato da sempre da
parte di tutta la critica com il più importante di tutta la storia del
rock, diventa il veicolo di un’opera, più che una raccolta di canzoni.
Sotto un controllo rigoroso del lavoro di studio, il disco, come
un’antenna parabolica puntata sulle nuove visioni generazionali,
raccoglie il meglio delle energie creative e artistiche del tempo e ne
rimane una fotografia strabiliante, un circo delle meraviglie messo in
musica. L’uscita ebbe un effetto irripetibile, come una sorta di
diapason che mise sulla stessa sintonia simultaneamente milioni di giovani
sparsi per il pianeta. Il mondo giovanile non era mai stato, e non lo sarà
più, così unito, così omogeneo e soprattutto non era maio sembrato così
chiaramente un mondo interamente nuovo. Questa
omogeneità comincia a sfaldarsi immediatamente. Il pianeta, del resto in
quegli anni mutava a velocità vertiginosa, a distanza di pochi mesi e i
Beatles, in una sorprendente intuizione sincronica, testimoniano l’eplosione
delle molteplicità nel lodo disco più complesso, il cosiddetto White Album, pubblicato l’anno dopo. E’ la summa dell’opera betlesiana e di tutto il decennio. Mai disco aveva contenuto una tale e compiuta ricchezza musicale e, di fatto, la codificazione definitiva di tutti i territori esplorati ed esplorabili tanto che l’unica vera e propria novità musicale sarà, circa dieci anni dopo, il punk. Sul White Album c’è tutto: blues, rock’n’roll, country-folk, ballate, jazz, rock, psichedelia, heavy metal, sperimentazione, ska-reggae, con una genialità caledoiscopica e irrefrenabile. E con Eric Clapton, come ospite d’onore, c’è un pezzo scritto dall’amico George harrison. L’enorme
influenza del fenomeno Beatles spinse tutta la musica britannica ad una
riconsiderazione di se stessa. Numerosi nuovi gruppi si affacciarono alla
ribalta, propiziati dalle radio pirata che cominciano a diffondere nel
paese un profluvio di musica pop-rock senza sosta, e da una progressiva
presa di coscienza di un sound inglese, avvenuta soprattutto in provincia,
nella Liverpool del Mersey Beat, nella Newcastle degli Animals, nella
Manchester degli Hollies, nella Birmingham dei Theam di Van Morrison,
tutti gruppi che poi convergeranno a Londra capitale mondiale del rock. Anche
i Rolling Stones partiranno dalla provincia per conquistare l’impero. Beatles
e Stones rappresentano due polarità del tutto complementari, al di là di
artificiose rivalità create
dalle mode dell’epoca. Con i Rolling Stones nasce il linguaggio musicale
più comunemente identificato nel rock, subito dopo rielaborato dagli Who
in Inghilterra a dai Velvet Underground in America. Se
dei beatles ci rimane una fiammeggiante tavolozza di colori che hanno
insegnato alla musica popolare le sue immense, infinite possibilità,
degli Stones ci rimane una precisa sonorità che emancipa il linguaggio
del blues a uso e consumo del nuovo soggetto giovanile. In fondo i Rolling Stones ripercorrono efficacemente la stessa strada imboccata, a suo tempo, da Elvis, ovvero adattano il linguaggio rhythm’nblues ai nuovi soggetti giovanili bianchi. Il senso di libertà offerto dalla musica nera, rimescola le carte con la musica popolare bianca divenendo bandiera dell’insoddisfazione. Torna a funzionare una sorta di peccaminosa equivalenza tra arte e vita, ovvero la comunicazione di un messaggio in cui contava anche il “come” si era e non solo il “come” si dicevano le cose. I Rolling Stones sono una potenziale miccia erotica e se Elvis sente ad un certo punto il bisogno di rientrare nei ranghi, loro, al contrario, inaspriscono i propri atteggiamenti provocatori ed estremisti. L’urlo liberatorio del ’68 è alle porte e gli Stones sull’onda della rivolta giovanile incarnano lo spirito del tempo con concerti dove scoppiano veri e propri tumulti e dove per la prima volta avvengono scontri con la polizia. Il trionfo del gruppo è proprio nella performance dove Mick Jagger esterna la nuova ansia di ribellione con la voce e con il corpo. E se Jagger è il volto, Keith Richard è il suono, o meglio la chitarra, il riff, l’archetipo del rock. Inizialmente egli si rifà agli eroi neri del rock’n’roll, Chuck Berry in testa, e a quelli del blues elettrico (Bo Diddley su tutti), ma con raffinate intuizioni modifica questo suono in qualcoso di diverso, più appropriato alla nuova era, divenendo il marchio degli Stones. I loro comportamenti “sporchi” e anticonvezionali anticipano quelli che diventeranno fenomeni di massa e attribuiranno ai Rolling Stones una connotazione sovversiva che non si toglieranno più di dosso. Tanto che nel raduno rock di Woodstock del ’69 vengono esclusi dagli organizzatori perché ritenuti in qualche modo pericolosi in quanto possibili incitatori di disordini visto che nel ‘68-’69, mentre esplodeva la protesta studentesca, si erano lanciati in alcuni pezzi fortemente politicizzati. Cautela, quella degli organizzatori, che si dimostrò stranamente azzeccata poiché pochi mesi dopo, nel dicembre dello stesso anno, ad Altmont, durante un raduno in cui i Rolling Stones avevano affidato incautamente il servizio d’ordine agli Hell’s Angels, ci furono i primi morti in un concerto. Ma non era la prima ombra che calava sul gruppo. Il 3 luglio, sempre del ’69, Brian Jones, membro fondatore, fu trovato morto nella sua piscina, per cause ancora non del tutto chiare, e i Rolling Stones due giorni dopo organizzarono un grande raduno ad Hyde Park, nel centro di Londra, con cui celebrarono il funerale dell’amico a tempo di rock. Jagger lesse davanti a 300.000 persone la poesia Adonais scritta da Shelley e subito dopo vennero liberate migliaia di farfalle bianche. Beffardi, maliziosi, pansessuali e drogati, furono per molto tempo l’icona stessa della trasgressione. Lo stesso governo inglese, inizialmente disposto a sfruttarne l’aura vincente e la nuova imprenditorialità consumistica connessa al rock, cambiò atteggiamento, in coincidenza con l’arresto per droga di Jagger e Richard, tentando di combattere quello che da colorata moda si era trasformato in “panico sociale”. Gli
stones, in fondo, incarnano in modo esemplare tutta la doppiezza di cui è
capace il rock e il perverso potere di trasformarsi nel suo rovescio. Anche
musicalmente, passando dai riff acidi e distorti alle ballate. I
’60 non furono, ovviamente, solo Beatles e Rolling Stones. Gli
Who si fanno carico di una musica nevrotica e sovraeccitata con un
forte potenziale distruttivo e iconoclasta che sfocerà presto nella
distruzione degli strumenti sul palco a fine concerto, quasi un rogo
finale, un sacrificio destinato ai demoni del rock evocati nel concerto. I
kinks satirici e fortemente ironici elaborano uno spirito critico
rigoroso e venato di striature marxiste, anticipando una certa forma di
rock duro. Gli
Animals allargono il territorio proprio del rock con la voce soul
di Eric Burdon che esprime perfettamente
l’integrazione tra lo stile dei neri e il sound inglese. Stessa
cosa che fa lo Spencer Davis Group di Steve Winvood che formerà
poi i Traffic. I
Cream, folgorante invenzione del power
trio (basso, chitarra e batteria), spingono il rock verso
l’improvvisazione, pur mantenendo uno stile compatto, essenziale ed
elegante e consegnano alla storia tre strumentisti eccezionali: Ginger
Baker, Jack Bruce e soprattutto Eric Clapton (sono gli anni in cui sui
muri inglesi si legge “Eric is God”, Eric è Dio) che insieme a Jeff
Back, JimmY Page e Jimi Hendrix, costruiranno il mito della chitarra
elevando il ruolo del chitarrista ad una leadership di immagine. E poi in america. I
Velvet Underground con quelli che Lou Reed chiama “accordi
base” del rock, passaggi semplici ma di grande effetto, creano una veste
perfetta per la sua poesia suburbana. Frank
Zappa
grande demistificatore e demitizzatore a tutto campo, viaggia nella musica
con spietato e sarcastico nichilismo ideologico implacabilmente rivolto ai
luoghi comuni della stessa cultura rock di cui egli fa parte. I
Beach Boys le cui eccezionali doti compositive, apparentemente
frivole, costituiscono una vicenda insolita che necessita di una rilettura
approfondita. I
Byrds, imprevedibile fusione tra il culto folk e i tentativi
psichedelici che soggiornano in California, che riusciranno a tradurre per
un pubblico più vasto il difficile linguaggio di Dylan armonizzandolo con
arrangiamenti morbidi
b t e allusivi. Captain
Beefheart,
uno dei personaggi più insoliti in assoluto della scena musicale, che con
Trout Mask Replica, il suo
capolavoro, molto prossimo al concetto di antimusica, traccerà il vero
manifesto “freak”. I
Jefferson Airplane, i Grateful Dead e tutto il movimento
hippie Californiano che si muoverà sulla scia dell’impegno politico,
del pacifismo, del rifiuto della guerra del Vietnam, della lotta per i
diritti civili. I
Creedence Clearwater Revival che mescoleranno rock’n’roll e
rhythm’n’blues ottenendo un ritmo essenziale ed eccitante. I
Doors che con la poetica Jim Morrison svelano la componente
ancestrale del rock, andando oltre le “porte della percezione” per
scardinare i tabù tradizionali. E
ovviamente Jimi hendrix. Dotato
di un talento e di una inventiva sbalorditivi, Hendrix potrebbe essere
considerato un genio puro, uno di quei musicisti per i quali la musica è
parte stessa della vita, senza bisogno di eccessive mediazioni
intellettuali, nel senso che non si avverte mai lo sforzo tecnico, il
travaglio che va dall’idea alla sua realizzazione. Il
suo corpo, la sua mente, la sua persona, erano la musica, senza penose
sovrastrutture, ma in modo
semplicemente naturale. Di
fatto Hendrix è il primo artista nero a diventare un assoluto
protagonista della cultura rock con una carriera che sembra una corsa
rapidissima, funambolica, irresistibile e conclusasi, tragicamente, a soli
27 anni. E’ incredibile che tutto sia successo in soli quattro anni, per una parabola creativa che avrebbe richiesto decenni per svolgersi compiutamente. Hendrix brucia e consuma tutto rapidamente creando con la sua prodigiosa tecnica una sensazione di evocazione sciamanica sospesa nello spazio e nel tempo. Tutto in soli 3 dischi in cui la sua chitarra spesso sembra una voce lancinante, straziata, disperata, divenendo narrazione, urlo interiore, squarcio di coscienza. In questo senso, l’inno americano che si trasforma fino a diventare il suono delle bombe al napalm lanciate in Vietnam è più esfficace di qualsiasi parola, e rimane come una delle più drammatiche rappresentazioni della storia del rock. Con Hendrix la chitarra assume definitivamente il ruolo di prima donna del rock con una formazione a tre dall’impatto sonoro devastante adatto ad utilizzare in chiave innovativa l’antica struttura formale del blues per una musica clamorosamente “nuova”. Ma se fosse vissuto più a lungo tutti gli indizi fanno pensare che egli sarebbe andato perfino oltre, verso una forma di composizione tutt’ora impensabile. Rimane tutta la sua tecnica il suo tutt’uno con lo strumento tanto da farlo assurgere ad una sorta di mutazione genetica del corpo. Un gioco funambolico e vertiginoso sulla tastiera che ha il pregio di non essere fine a se stesso, ma funzionale alla struttura del brano in modo da esaltarne i pregi compositivi. Nella seconda metà degli anni sessanta il rock si muove mantenendo fede alle sue promesse. E’ in atto ormai una poderosa attività creativa che si muove tra New York, Los Angeles, San Francisco e Londra. La
musica che si suona in questi anni è tra le più diverse immaginabili,
eppure si rifà ad un unico codice e viene percepita come un fenomeno
unico ed omogeneo. Dai
Beatles in poi e attraveso l’opera di Frank Zappa, tutta la creatività
di quegli anni, va verso un’idea di musica totale, verso la massima
estensione possibile dei confini della musica popolare. Se questa ricerca
ebbe un esito clamoroso, lo si deve al fatto che, per la prima volta nella
storia, la sperimentazione del nuovo è affidata, non ad una élite
intellettuale, ma ad una smisurata massa giovanile. Il
rock nega, sin dall’inizio, di essere un genere, scegliendo, casomai, di
essere un atteggiamento, un’attitudine con un suo preciso codice di
accesso. C’è
un gap generazionale netto e violento. Gli “adulti”, i “borghesi”,
i “conformisti”, non in possesso di questo codice di accesso, non
hanno i mezzi per capire ed appropriarsi della cultura rock. Ma
quali sono questi codici? Il
primo, ovviamente, è la musica stessa. Suoni e parole costruivano
significati con concatenamenti di senso esclusivi. Per sfuggire agli
schemi del sistema il rock cominciò ad elaborare un preciso stato
mentale, una condizione di ascolto indispensabile a “entrare” nel
messaggio. Altro
modo di intendere il codice era quello di fare riferimento ad un insieme
di fatti, di comportamenti, di slang, in uso nel mondo giovanile. Oppure
di inviare messaggi paralleli. I critici non solo musicali, ma di tutte
l’espressioni d’arte sottolineano, ancora, come tutt’ora i Beatles
siano l’esempio assoluto di musica a doppio livello. Da un lato
incidevano Yesterday evergreen
universale della musica ufficiale, dall’altro Strawberry
fields forever, intraducibile e criptico per chi non fosse esperto
della cultura pop. Si facevano proclamare baronetti e subito prima di
presentari d’avanti alla regina fumavano un joint nei bagni di Buckingam
Palace. Si
trattava di un atteggiamento generale di cui erano partecipi tutti i
protagonisti del rock dei ’60 e che continua a sopravvivere negli anni
’70. Anzi ad un certo punto, quando compaiono sulla scena i Led
Zeppelin, il gioco comincia a diventare esasperato. Il
gruppo iniziò a gicare ambiguamente sui simboli magici ed esoterici e
Jimmy Page coltivò una forte passione per il mago trasformista Aleister
Crowley, una delle figure più inquietanti del secolo scorso. In
controtendenza, quindi, con il clima gioioso di quegli anni, i Led
Zeppelin sposano un’immagine cupa e minacciosa cui associano una musica
di potenza inaudita. E’
un rock scarno, essenziale, impastato di blues, ma al tempo stesso duro
come mai era stato concepito tanto da diventare l’archetipo dell’heavy
metal. Una definizione che Page comunque rifiuterà ritenendola riduttiva
e semplicistica. In effetti, anche se tutt’oggi vengono considerati,
insieme ai Deep Purple, come i progenitori del rock più duro e se il
clichè è quello di un gruppo monumentale e devastante, la versatilità
perseguita da Page apre la strada a spunti folk, a ispirazioni
orientaleggianti e a brani cui si adatta ferfettamente una dimensioine più
acustica. Dopo il rock’n’roll dei ’50 e l’utopia dei ’60 arrivano gli anni ’70 in cui il rock perde parte della sua creatività unidirezionale disperdendosi in numerosi campi diversi. Il
1969 era trascorso scandendo le sue tappe in modo cionvolgente e a volte
drammatico. Il
16 gennaio jan Palach si da fuoco per protestare contro l’invasione
sovietica di Praga. Il
22 marzo John Lennon e Yoko Ono, due giorni dopo essersi sposati,
arganizzano in un albergo olandese
un bed-in in favore della pace. Il
3 luglio Brian Jones viene trovato morto. Il
21 luglio alle 4.57 tre astronauti americani sbarcano sulla luna. Il
9 agosto Charles Manson e la sua banda massacrano Sharon Tate e i suoi
amici nella loro casa a Bel Air, scrivendo sui muri, con il sangue, Helter
Skelter e Pigs il titolo di due pezzi dei Beatles cui dicono di essersi
ispirati perché annunciavano l’avvento della rivoluzione. Il
15, 16, 17 agosto si svolge a Woodstock il più celebre raduno rock di
tutti i tempi apice e nello stesso tempo canto del cigno degli anni
sessanta. “The
dream is over” e niente sarà più come prima. Il rock classico va in
crisi producendo decadenza e glamour. Nasce, tra l’altro, il glam rock,
una facciata scintillante che coniuga al travestitismo una consapevolezza
colta e raffinata che con sfrontata disinibizione ribadisce l’autonomia
della cultura pop-rock rispetto alla cultura borghese. E’
un gioco ambiguo e spiazzante che si inserisce nel perenne dibattito tra
“arte” e “merce”. <<Il
glam rock>>, a detta di Castaldo, <<ostentando,
consapevolmente, una facciata lucente e ammiccante riesce a descrivere
meglio la trasformazione del reale, ponendosi come specchio impertinente
ed eccessivo, ammiccando al futuro e autoassolvendosi in quanto sorta di
“mutazione” del reale>>. Bowie,
è certamente la figura più rappresentativa, e la sua stella si accese
definitivamente nel 1972 quando presentò il suo spettacolo, alla Royal
Festival Hall di Londra, l’8 luglio in una serata in cui intervenne
anche Lou Reed. Bowie
presentò Ziggy Stardast, la
maschera che lo rese celebre
e con la quale, per un periodo, finì con l’identificarsi. Bowie
suggerisce che la natura dell’arte è nella trasformazione, il rock
stesso, in fondo viene indossato come una maschera, e in questo modo può
essere metafora della vita come farà poi Lou Reed nel gioco dello scambio
delle parti e come farà il camaleontico Iggy Pop. Ad
agosto iniziò la tournè con cui Bowie e i Ragni di Marte, il suo gruppo,
portarono in giro, prima in Europa e poi in America, uno spettacolo
colossale, esempio superbo di teatro rock, in una perenne confusione
arte-vita. In pochi mesi migliaia di giovani imitarono il suo taglio di
capelli trasformandoli in colore rosso fuoco come quelli che Bovie aveva
adottato per la serie di spettacoli. Poi
dopo un anno esatto dall’esordio dello spetttacolo fu fissata, per la
sera dell’8 luglio 1973, la serata con cui, si mormorava, Bovie avrebbe
non solo chiuso la tournè, ma interrotto la carriera ritirandosi
definitivamente. In
un certo senso l’annuncio che in effetti diede, durante l’esibizione,
di essere, quello, l’ultima concerto, non fu del tutto fasullo. Bowie
intonando Rock’n’roll Suicide,
ad un pubblico abbligliato come lui, dipinto come lui, pallido come lui,
ammazzò per sempre Ziggy Stardast,
il suo personaggio, come pure pose fine all’esistenza del suo gruppo.
Mai più si sarebbe travestito in quel modo, mai più avrebbe suonato con
i Ragni di Marte. Ci
rimane la sua musica in uno degli album più interessanti e belli della
storia del rock “The Rise And Fall Of ZiggY Stardast And The Spiders
From Mars”. Quasi
di pari passo al glam rock prende forma, ancora in Inghilterra, l’idea
di una musica totalmente diversa, detta poi progressiva, che andrà molto
oltre l’ambito specifico, contagiando, in sostanza, tutte le musiche
elaborate in quegli anni. Gli
ingredienti di base sono l’ampliamento della matrice blues, già
intrapresa con l’esperienza psichedelica, estesa fino al jazz e certa
musica orchestrale. Tutto
nasce sotto la spinta di una presa di distanza dalla musica commerciale
alludendo ad una diversa collocazione, in una zona definitivamente
d’arte. Le
maggiori ambizioni “estetiche” della musica possono essere supportate
ed incoraggiate dalla crescente evoluzione tecnica del tempo tanto che la
possibilità di sovraincidere sempre più piste genera una metodologia
compositiva paragonabile a quella della partitura armonica nella musica
classica. Irrompe
il fiabesco, con elfi, campagne immaginarie, scenari idialliaci, tutto con
un voluto distacco dalla realtà. Anche
i King Crimson, inizialmente, subiscono il fascino di questo fatato
antirealismo e così i Genesis interpreti, grazie alla staordinaria
capacità scenica di Peter Gabriel, di una sorta di teatro rock erudito ed
intelligente in perfetto equilibrio tra richiami fiabeschi e musica
classica. E’ il forte richiamo per questa, l’altro polo intorno al
quale ruota il progressive con le sue sfumature romantiche e folk e che si
manifesta nella tendenza a dilatare la composizione fino a vere e proprie
suite. Basti pensare a Rapper’s Ready il brano dei Genesis che occupa un’intera
facciata di “Foxtrot” o all’album doppio degli Yes “Tales from
topographic oceans” di soli 4 brani, uno per facciata, di circa 20
minuti l’uno. Ed ancora Emerson Lake & Palmer, Moody blues, Procol Harum, Nice, Roxy Music, tutti risentono, anche se alcuni in modo decisamente ampolloso, di questo clima che prende a prestito alcune formule proprie della musica sinfonica. Altri,
invece, come i Family realizzano un ibrido senza né certa artificiosità
sinfonica né certo approccio, anche questo dell’epoca, al mito
medievale. Lo
stesso vale, soprattutto nei primi dischi, per i Jetro Tull in cui il progressive
trova un’interpretazione singolare a metà strada tra folk celtico e
rock duro e per i Soft Machine di cui basterebbe citare il terzo disco
dove troneggia Moon in June, vera pietra miliare da cui partiranno decine di
ramificazioni progressive. Se è vero che la musica popolare nasce in genere da artisti provenienti da classi disagiate vi sono tuttavia delle significative eccezioni che, nel caso del rock, avviene con i Pink Floyd, provenienti dal relativo benessere familiare e dagli studi di architettura. Quanto ciò abbia influito nell’iniziale sperimentalismo dei Pink Floyd è difficile da capire; sta di fatto che la prima ossessione del gruppo, fortemente impregnata dal temperamento instabile di Syd Barrett, non è quella del riscatto sociale, bensì quella del “progetto” artistico. Il cammino dei Pink Floyd, iniziato alla fine dei ’60 e portato a maturità e a pieno compimento in tutto il decennio dei ’70, è in un certo senso inverso a quello comune alla maggior parte dei gruppi contemporanei. Essi partono subito con spunti e premesse fortemente innovative e trovano il successo dopo una relativa inversone rispetto all’intenzione originaria. La musica dei Pink Floyd, già rivoluzionaria, porta un’ulteriore novità nella relativa scomparsa dell’individuo nell’immagine della musica e la conseguente messa in secondo piano della personalità dei componenti. Al centro c’è la musica, con le allusioni allo spazio esterno, con la sensazione di irreale, con i sogni psichedelici, con gli effetti di suoni e di luci dietro ai quali a stento si potevano riconoscere i volti dei quattro. Si configura un processo altamente innovativo in cui la personalità individuale sembra scomparire dietro il dominio di una specie di guida inconscia all’esplorazione musicale. L’individuo si rimpicciolisce, appare in tutta la sua fragilità di fronte e forze enormemente più grandi di lui. In tutti i loro allestimenti scenici i Pink Floyd appaiono volutamente piccoli e indifesi rispetto a delle autentiche cattedrali di suoni ed immagini. Tutto è grande: l’occhio che li scruta minaccioso sul grande schermo centrale (chiamato Mr. Screen come se fosse un’entità viva e autonoma); i maiali che volano sul pubblico; gli aerei; i suoni; i rumori; le risate irreali; secondo una scala che tende a ridimensionare sempre di più l’iondividuo. Questo tratto rimarrà una costante del gruppo anche quando nella fase matura si manifesterà sempre di più la leadership di Waters che in “The Wall”, la sua opera più ambiziosa e compiutà, arriverà a realizzare il celebre muro, edificato sin dall’inizio, sino a coprire interamente la scena nascondendo per quai tutta la durata del concerto il gruppo. Allo stesso tempo tutta la poetica dei Pink Floyd è caratterizzata da un costante senso di perdita, in seguito ad una delle circostanze più singolari della storia del rock, dovuta all’abbandono del suo prim o e carismatico leader. Tutto quello che i Pink floyd elaborarono nei primi mesi di vita, girava intorno a Syd Barrett il quale sino a tutta la lavorazione del primo album “The piper at the gates of dawn” riusciva ancora a padroneggiare la sua follia tramutandola in creatività. Molti artisti, in seguito, da Marc Bolan dei T. Rex a Bowie faranno esplicito riferimento all’inflenza ricevuta da Barrett che srà quasi santificato dalla new wave. Per non parlare poi dei riferimenti espliciti come il ritratto del travestito cleptomane raccontato da barrett in Arnold Layne cui Bowie si ispirerà direttamente. Gli stessi Pink Floyd dopo il suo allontanamento svilupperanno un costante richiamo per questa perdita unita ad una ambigua fascinazione per la follia che riguarda, peraltro, buona parte del rock dei ’70. I richiami all’amico iniziano con Fearless (con evidenti riferimenti a The fool on the hill dei Beatles, tanto che il coro dei tifosi di calcio è quello del Liverpool) e verranno ripresi in Brain Damage di “The dark side of the moon”. Ma è dopo la consacrazione che i Pink si sentono liberi di esprimere tutta la loro nostalgia nei confronti di Barrett componendo l’omaggio più clamoroso mai realizzato ad una persona vivente dal rock. Sono forse anche i testi più belli mai scritti da Waters che con Wish you were here, l’unica canzone consegnata ad un repertorio più popolare e facile, alluderà non solo a Barrett, ma all’assenza in generale e alle difficoltà insorgenti nel gruppo. Allontanato barrett gli altri tre con l’aggiunta di Gilmour manifesteranno in modo crescente tutta la loro personalità sino all’esplosione di “The dark side of the moon” riuscendo a coniugare perfettamente l’“arte” con un impatto commerciale sbalorditivo. Il salto di qulità è notevole sin dall’inizio del disco, tra i più celebri della musica rock, con una voce che dice: <<sono matto da tanti fottuti anni>>, un cuore che batte, un orologio dall’ipnotico ticchettio, una cassa, una risata e poi una specie di risucchio che apre il suono con le note che si diffondono. Cresce Gilmour, sia strumentalmente che musicalmente, ed emerge costantemente Water sino a “The wall” massimo compimento della sua egemoniaca e apocalittica visione che anticipa di 10 anni l’abbattimento del muro per eccellenza, quello di Berlino. Tutto il destino dei Pink Floyd si completa in “The wall” che rimane una delle più straordinarie rappresentazioni del rock, un potente atto d’accusa contro lo star system, in un clima di dolente autocritica in cui l’occultamento dei musicisti in scena è la rappresentazione dell’uomo che processato viene condannato ad essere “liberato” dal muro fisico e a viaggiare tra i suoi simili dai quali è separato dal muro dell’incomunicabilità. A metà dei ‘70 il mondo giovanile si stava preparando, intanto, ad un altro grande strappo. L’estate del 1976 viene ricordata in Inghilterra come l’estate dell’odio. Qui, come altrove, si avvertiva l’idebolimento dell’economia, un’inflazione massiccia, una disoccupazione galoppante e per contro il numero record di centomila laureati. Nel mondo occidentale il mito della società del benessere mostrava il risvolto doloroso della medaglia come se dopo anni di illusorie promesse il progresso legato all’idustrializzazione dei processi di produzione avesse mostrato il suo vero volto. In un tale contesto che aspettava di esplodere da un momento all’altro, il Punk fornì la fiamma con cui si accese la miccia. L’eco di questo fragore fu enorme soprattutto se confrontata allesiguità delmessaggio musicale che fu comunque, ancora una volta, quello giusto al momento giusto. In Inglilterra la portata degli eventi fu catalizzata dalla musica o meglio dall’amplificatore distroto del rock. Fu un punto di non ritorno in cui la generazione del punk si comporto come fosse una scheggia impazzita una mutazione genetica che sconvolse il linguaggio, l’arte, la musica, il sociale. Il punk estremizza un aspetto del rock rimasto latente legato ad una forma di condotta anarchica. Tutto ciò che conta è il “qui e ora”, immediato e perentorio, in una continuo trionfo del desiderio e dell’annientamento. Negando il sociale e perfino la cultura come possibilità di recupero il punk sconvolge i parametri e le categorie che comunque si erano andati definendo anche nell’ambiente del rock. Saltano, in un completo nichilismo, tutti i punti di riferimento, la buona musica e la cattiva musica, fino al rifiuto dell’accettazione passiva dei ruoli che la socità ha deciso per noi. Il valore del punk, per di più, è nel gesto, assolutamente spoporzionato rispetto ai meriti strettamente musicali. Se il rock era stato visto, dalla cultura istituzionale, un parente musicalmente “povero”, i punk, con in testa i Sex Pistols, rivendicano questa povertà come tratto distintivo azzerando tutti gli sforzi compiuti in passato. La tesi è di nuovo quella di cambiare il mondo, senza i contorni ideologici dell’utopia. Non mentono, non illudono, non generano l’equivoco che ci possa essere un mondo migliore, un futuro diverso, anzi urlano che il futuro non c’è. Eppure anche dietro questo efferato nichilismo si cela un sogno sovversivo per le istituzioni, tipico dell’anima vià radicata del rock, che l’azione, anche individuale, possa cambiare il corso della storia. Da questo punto di vista anche i Sex Pistols sono in linea con la tradizione rock. E’ necessario cambiare il mondo a partire dal quotidiano, mettendo in discussione gesti, comportamenti, pose. Diversificarsi è d’obbligo, la complicità, anche solo estetica, con il potere è crimine. Vestirsi in un certo modo diventa importante se non addirittura politico. E di nuovo il rock compie il miracolo di estendere a livello di massa atteggiamenti che in passato erano stati propri di ristrette cerchie artistiche. E se i Pistols fanno tutto come atto primario e viscerale i Clash hanno il merito di dare al punk una forte consapevolezza politica. Di nuovo la dimensione del rock diventa metafora di un più vasto collettivo in rivolta di nuovo i loro pezzi raccolgono l’energia di quegli anni dandole una forma compiutamente politica. La stagione del punk che in America ha i Ramones come rappresentanti più prestigiosi, seppur intensa, è tuttavia breve; gli stessi Clash con intuizioni geniali inseriscono sonorità ska e reggae fino alla stupenda varità di “Sandinista”. C’è l’avvento della new wave che per un verso porta avanti con alcuni gruppi le istanze del punk per un altro propone un varietà soeprendente di sottogeneri a volte difficilmente catalogabili. Talking Heads, Tom Tom Club, B52, Tuxedomoon, Patty Smith, Residents, Television, Dead Kennedys, Père Ubu, Devo, Jam, Ultravox, Japan, sino al dark rock di Siouxsie, Joy Division e Cure. La lista potrebbe molto più lunga, ma ci fermiamo ricordando la metafora lanciata dai Police, figli ibridi di varie componenti. La new wave è si una nuova onda, ma in un mare popolato da naufraghi e loro lanciano il “messaggio nella bottiglia” realizzando “Reggata de Blanc” che uscito dopo l’esordio di “Outlandos d’Amour” è forse il più riuscito dei loro album. Concomitante all’esplosione del punk e alla successiva new wave c’è in America il ritorno ad un certo individualismo ben rappresentato dalla nuova affermazione dei cantautori. Una voce su tutte, Bruce Springsteen, si eleva dal coro generale collegandosi alle radici popolari del rock’n’roll e alla frontiera e richiamandosi, poeticamante, al nazionalismo di Whithman. Comincia ad affacciarsi alla ribalta intorno al 1973 con un forte romanticismo rock’n’roll legato al tema dell’innocenza e dell’iniziazione alla vita ribadendo con energia la sua appartenenza Working class. Nei suoi lavori c’è un senso di perdita, ma anche la disperata voglia di sperare di nuovo, fino alla prima apoteosi di “Born to run”, il disco della consacrazione dopo la ricerca molteplice dei primi due. C’è tutta la poesia nostalgica che sarà tipica della sua futura opera e ci sono i primi capolavori, tra cui, ovviamente, Born to run, concepito come un inno di fuga verso una terra disperata e “bruciata”. Autostrade, ragazze messicane, automobili, se non i bassifondi, le vie “secondari” diventano il principale territorio di esplorazione in una corsa perenne che vede come momento più autentico e vivo quello del palcoscenico in cui si consuma il rito della propria realizzazione totale. La musica è l’unica strada, l’unica via di salvezza, assoluzione taumaturgica e travolgente. E proprio per questo si consolida il mito live di Springsteen che per anni e anni termina i concerti urlando alla folla “I’m a prisoner of rock’n’roll”, metafora di appartenenza ad un albero genealogico ormai fortemente radicato. Il boss è ormai una leggenda vivente e la sua virata verso un pessimismo consapevole lo porta alla definitiva consacrazione di “The river”. E’ l’eroe del popolo giovanile che non molla, un ribelle dai buoni sentimenti. La metafora del fiume, nella canzone omonima, racconta di una disillusa iniziazione; un sogno che non si avvera è una menzogna e Springsteen, immerso profondamente nella cultura rock, esprime compiutamente il senso deluso di un’iniziazione generazionale. Dopo la svolta di “Nebraska”, nel 1984 si registra un nuovo poderoso cambiamento con la pubblicazione del disco più famoso e venduto “Born in the U.S.A.” che fa velocemente il giro del mondo. Rimane la sua poetica di fondo nella consapevolezza dell’adolescnte che crescendo si rende conto di “dover imparare a convivere con l’ineluttabilità che a questo mondo ci siano tanto dolore e tanta bellezza uno di fianco all’altra”. Il tour che segue viene considerato il miglior concerto rock di tutti i tempi, ovvero il meglio che il rock può raggiungere coi suoi strumenti più semplici e diretti, senza trucchi, senza sovrastrutture sceniche. Il resto è storia. Springsteen manterrà il suo alto standard compositivo rispecchiato anche in questo brano scritto per Patty Smith che ha il merito di aggiornare la poesia rock creando un’icona di femminilità provocatoria e disordinata. Gli anni ’80 (il decennio in cui si ha l’affermazione definitiva della discomusic) sono forse i meno stimolanti per la musica rock, nonostante gli spunti creativi della “new wave”. La novità più rilevante è la scoperta, da parte delle case discografiche, di poter ottimizzare la promozione e quindi potenziare la vendita con l’introduzione sul mercato dei videoclip. Visto che il rock è strettamente connesso alla civiltà dell’immagine, era inevitabile che anch’esso non soggiacesse a questo nuovo avvento, ma è un fatto, comunque, che l’industria assume un controllo e un’invadenza che non aveva mai avuto in precedenza. L’era del video esplode ed invade il mercato in modo così clamoroso tanto da produrre una nuova cultura legata all’immagine, ovvero, se vogliamo sull’inconsistenza del soggetto. <<Il rock>>, commenta Castaldo, <<diventa un universo popolato da simulacri in cui una ragazza che non sa ballare, non sa cantare, non sa suonare, o comunque non eccelle in nessuna di queste cose, può diventare la più celebrata popstar del momento. Madonna è proprio l’esempio del nuovo divismo adolescenziale che elegge ad eroi giovani di belle speranze e non eccelso talento come i Duran Duran>>. Aumentano i divi di cartapesta e il mondo musicale si affolla sempre di più sfruttando, come canale preferenziale, il video. Tutto ciò viene celebrato con Thriller il disco di Micheal Jackson che diventa un modello di produzione e promozione e per il cui video viene coinvolto addirittura, Jhon Landis, un celebre regista, con un budget così alto da girare un intero film. In anni, comunque, in cui l’impegno politico sembra fuori moda non mancano prese di posizione fortemente radicate nel sociale. Ne è esempio tutta la battaglia antinucleare, iniziata con la manifestazione “No Nukes”, che portò ad una effettiva riduzione degli stanziamenti pensati per la nuclearizzazione in America. In seguito Jackson Browne cercò di fare lo stesso per la questione nicaraguese, ma qui la guerra dei contras si fermò solo quando i sandinisti furono battuti alle elezioni del ’90. In Inghilterra il risveglio dell’impegno lo si ebbe con l’avvento della Thatcher, la signora di ferro. Il punto cruciale fu il drammatico sciopero dei minatori durato 358 giorni e che si concluse con la sconfitta del movimento operaio. I minatori ebbero l’appoggio diretto di numerosi rocker, come Paul Weller e Billy Bragg, e più in generale un consenso diffuso da tutto l’ambiente musicale. L’episodio fondamentale del decennio è costituito dal “Live Aid”, il concerto rock organizzato per combattere la fame nel mondo tenutosi il 13 luglio 1985. Il rock ritorna a scoprire il proprio potere messo a sevizio di uno scopo benefico, di nuovo tutto il popolo giovanile di ogni latitudine e grado sociale partecipa collettivamente ad un evento sociale. Considerando i partecipanti sembrò di assistere ad una messa in scena della storia del rock. C’è un ricordo indimenticabile: quello in cui Bono salta dal palco, prende una ragazza dal pubblico e, in mezzo allo scompiglio generale causato, l’abbraccia commosso. E’ il punto nodale del “Live Aid”, e il momento in cui la storia degli U2 decolla alla conquista del pianeta. Saranno loro in effetti, insieme ai REM, a traghettare il rock negli anni ’90 preservandone la qualità e l’essenzialità del linguaggio. Gli
anni ’90 iniziano con un imprevisto rigurgito di energia proprio grazie
agli ingredienti che più comunemente vengono associati alla musica rock. Il
focolaio è Seattle, stato
di Washington, in America,
il nuovo virus è il “Grunge” un genere che è la prosecuzione
naturale del post-punk californiano, e le cui manifestazioni esprimono un
sostanziale esistenzialismo che nelle esternazioni più estreme estreme
tende a constatare la svalutazione di tutti i valori. Il grunge nega,
pertanto, ogni manifestazione di sfarzo in quanto sciocca illusione del
credere eterno ciò che è in realtà non lo è e rivendicando
l’appartenenza ad una origine cittadina
sotterranea e periferica. E’
una musica istintiva, un impasto sonoro fondamentalmente punk che avrà il
merito di avvicinare migliaia di giovani al rock e all’approccio con gli
strumenti in quanto strutturalmente semplice rispetto a certi tecnicismi,
a volte fini a se stessi, che si erano sviluppati negli ultimi anni. Non
c’è né il piglio rivoluzionario del punk, né l’invito alla
rivoluzione, ma un atteggiamento di resistenza ad oltranza, un
atteggiamento di rifiuto e d’invito alla sopravvivenza, nella
costituzione di un nuovo anticorpo musicale che spiazza e sbilancia le
certezze critiche e sociologiche. La
genealogia Grunge è molto lunga e complessa, ma no si puà non ricordare Soundgarden,
Nirvana, Alice In Chains e Pearl Jam. Gli
anni ’90 sono anche quelli in cui in tutto il mondo si nasce il fenomeno
Gun’s&Roses e gli anni in cui ritorna l’avvento musicale
dell’Inghilterra. È’ il momento della rivincita per l'orgoglio dei
sudditi di Sua Maestà britannica. Dopo anni di supremazia statunitense,
nel grande mercato del rock, infatti, adesso c'è finalmente un fenomeno
autoctono da esportare con successo. Si chiama britpop e già fa parlare
di una nuova british invasion destinata a fiaccare i rivali yankee. E le
analogie tra l'imminente invasione e la prima, quella dei Beatles, Rolling
Stones e Animals, in effetti non si fermano agli aspetti più
squisitamente economici. Il britpop, infatti, ha alla base tanto
“sixties sound” e una frivolezza molto londinese. Nelle sale
d'incisione i miracoli sono all'ordine del giorno: può accadere perfino
che i Beatles si ritrovino a incidere insieme. Fuori, intanto, Marilyn
Manson recita la parte dell'anticristo, sparando sulla religione e sullo
stile borghese delle famiglie statunitensi. E mentre gli Oasis conquistano
il mondo i dj si impongono sul mercato discografico. Alla fine del
ventesimo secolo lo studio di registrazione è diventato un luogo dove si
fanno miracoli: le esecuzioni strumentali possono raggiungere velocità
incredibili; i musicisti possono fondere le loro esecuzioni con quelle di
artisti che magari non hanno mai conosciuto di persona; le performance
vocali o strumentali di un artista scomparso possono essere utilizzate per
creare nuovi pezzi. Nuovi
nomi ridanno linfa al rock: Cranberries, Smashing Pumpkins, Nine
Inch Nails, Jeff Buckley, Alanis Morissette, Rage Against the machine, e
poi la voce stratosferica di Skin degli Skunk Anansis e la potenza del
funky-rock dei Red Hot Chili Peppers. Alla fine del decennio si segnala un grande ritorno: quello di Carlos Santana (protagonista degli anni ’70 con l’itroduzione nel rock di sonorità latino-americane) che ritrova un successo e sbanca a sorpresa le classifiche con “Supernatural. C’è
di nuovo Woodstock, ma la musica, in tutti i sensi, è cambiata e
l’originale è tutt’altra cosa. Il
rock del nuovo millennio si chiama Coldplay, Sigur Ros, e ovviamente
Radiohead in
grado di rappresentare il disagio esistenziale di fine millennio
attraverso un linguaggio musicale nuovo e raffinato, pervaso da una
malinconia di fondo e da una musica altamente suggestiva, fusione ideale
di quelle correnti noise, elettronica e pop-rock che avevano attraversato
il decennio. Il
loro percorso, iniziato nei ’90 è atipico, e dopo aver raggiunto il
successo abbandonano il cliché spesso abusato da chi una volta guadagnata
la notorietà si limita a riproporre ciò che il pubblico si aspetta. I Radiohead spiazzano tutti, pubblico e critica, e con una mossa commerciale suicida anziché cullarsi sugli allori e replicare gradevoli cloni dei successi passati cambiano completamente registro. Procedono per sottrazione sfidando i comuni argini della forma-canzone con melodie imprevedibili e la totale assenza, a volte, di armonie. E’ una forma di arte astratta con testi ermetici e una concezione degli album non standardizzabile. E’ la dimostrazione che il rock è già oltre non catalogabile, forse ha già espresso il meglio, ma certamente è più che mai vivo. Epilogo Sembra
quasi fatto apposta, eppure ogni volta che qualcuno comincia a parlare di
morte del rock, viene fuori una nuova sfida sonora, un nuovo germe di
ribellione. La
polemica è vecchia, quanto il rock stesso, e destinata e riproposi in
futuro con periodicità sistematica. Tutto
sommato c’è un vizio d’origine perché se ci riferiamo all’icona più
tradizionale, allora il rock è da considerare estinto ancor prima di
nascere, consumato proprio nel pieno della sua glorificazione degli anni
’60. Se
così non è stato e se è vero che non è morto nemmeno con il punk, come
generalmente si dice, c’è comunque un momento preciso della storia in
cui il rock e in generale tutta la musica hanno perso irrimediabilmente
qualcosa. E’ l’8 dicembre del 1980 il giorno in cui Mark Chapman uccide Jhon Lennon sparandogli a bruciapelo davanti al Dakota’s House, un palazzo di New York che si affaccia su Central Park. Nel
caso di Lennon la realtà supera la fantasia. Quello che Nashville,
il film di Altman, aveva appena annunciato con lo spettatore che spara
alla diva country, si è realmente
verificato e al livello più alto immaginabile. Mai
nessuna figura aveva ed ha invaso, come nel caso di Lennon, così diversi
campi culturali e a così alti livelli, essendo al tempo stesso musicista
geniale, provocatore, avanguardia artistica, attivista pacifico, poeta
universale, nella piena consapevolezza di scandagliare con una sorta di
acuta e perversa malizia gli spazi lasciati ancora liberi dal sempre più
invadente mondo dei media e con un paradosso che poteva nascere solo
all’interno della cultura rock: essere rivoluzionario e prodotto di
mercato al tempo stesso. A tutti, consapevolmente o inconsapevolmente, è mancato qualcosa e non possiamo chiudere la serata senza ricordare questa grande figura.
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